Un nuovo rapporto Iaea segnala attività nucleari non monitorate in Iran, sollevando timori internazionali. Secondo Nicola Pedde (Igs) sia Teheran sia Washington puntano a un accordo, ma il tempo stringe e le tensioni restano alte: “La finestra di opportunità è adesso. Serve pragmatismo da entrambe le parti, perché più si allungano i tempi, più l’accordo rischia di affondare”
Un recente rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), pubblicato il 31 maggio 2025, ha rivelato che l’Iran ha condotto attività segrete con materiale nucleare non dichiarato, sollevando nuove preoccupazioni sulla trasparenza del suo programma. Secondo il documento, citato da Reuters, Teheran avrebbe intrapreso operazioni non conformi agli obblighi previsti dall’accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa), dal quale gli Stati Uniti si sono ritirati nel 2018 durante la prima presidenza di Donald Trump.
Il rapporto evidenzia la presenza di tracce di materiale nucleare in siti non registrati, suggerendo che l’Iran potrebbe aver proseguito attività di ricerca o sviluppo al di fuori del monitoraggio internazionale.
Tuttavia, secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies (Igs) e tra i maggiori esperti delle dinamiche interne alla Repubblica islamica, “il rapporto non dice nulla di particolarmente sorprendente”. A suo giudizio, è soprattutto Israele a insistere sull’aspetto “segreto” delle attività iraniane, perché ha interesse ad alzare l’attenzione sull’Iran, mentre “la realtà è che tecnicamente Teheran ha potuto procedere con le proprie violazioni dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal Jcpoa”. Una dinamica che, osserva Pedde, ha spostato gli equilibri rendendo più difficile un ritorno al pieno rispetto dell’accordo originario.
È da questa consapevolezza che emergono segnali di cauto ottimismo sul fronte negoziale di una nuova intesa, guidata proprio per volontà di Donald Trump e nella sostanza appoggiata da buona parte della leadership iraniana. Due giorni fa il presidente statunitese ha definito una possibile intesa con l’Iran come “una buona notizia” per la stabilità regionale, e ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a non intraprendere attacchi contro le infrastrutture nucleari iraniane. Un appello motivato anche dal timore che un’escalation militare possa sfuggire di mano – in quegli stessi giorni era arrivato ai media un report teoricamente riservato in cui l’intelligence Usa esponeva il rischio di azioni preventive israeliane. Pedde sottolinea che sia il governo iraniano sia la Guida suprema vogliono un accordo, anche se “per tradizione diplomatica Teheran non si sbottona facilmente”.
Una parte del sistema rimane però scettica, soprattutto tra i conservatori. “La situazione è simile anche negli Stati Uniti: Trump vuole l’intesa, anche buona parte dell’amministrazione è favorevole. Tuttavia ci sono settori politici contrari, e le resistenze del segretario di Stato Marco Rubio”. Secondo Pedde Trump è spinto dal desiderio di raggiungere “qualcosa di storico”, ma il tempo è un fattore critico: “La finestra di opportunità è adesso. Serve pragmatismo da entrambe le parti, perché più si allungano i tempi, più l’accordo rischia di affondare”.
Le distanze tra Washington e Teheran restano comunque significative. L’Iran insiste per ottenere garanzie sul diritto all’arricchimento civile dell’uranio, mentre gli Stati Uniti non sono del tutto convinti di lasciare questa possibilità, e pensano a un percorso controllato. In questo quadro, osserva Pedde, “il percorso possibile è una sospensione, il rilascio di parte delle sanzioni e poi una possibile implementazione graduale sulla base del funzionamento di questa prima fase”.
La posizione di Israele è divergente da quella statunitense, con i diplomatici che, in conversazioni riservate, usano toni particolarmente critici verso l’approccio di Trump. Pedde ritiene però che Tel Aviv non sia nella condizione di sabotare questa fase negoziale: “Un attacco ora ai siti nucleari aprirebbe uno scenario incontrollabile. La linea di razionalità dovrebbe imporre a Israele di evitare questa posizione critica”. L’isolamento crescente del governo israeliano e la prospettiva di “una crisi profondissima come mai nella sua storia” rappresentano, secondo l’esperto, un chiaro invito alla prudenza, anche se “i toni forti servono a negoziare il massimo del risultato possibile”.
In quest’ottica vanno osservati anche gli attori del Golfo, che sembrano convergere verso una posizione favorevole al negoziato. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar hanno espresso preoccupazione per le conseguenze di una possibile escalation, consapevoli — come spiega Pedde — che “se l’Iran è in guerra con Israele, allora si crea uno scenario di guerra regionale a 360 gradi”. Pur mantenendo riserve sull’Iran, ritenuto ancora un attore malevolo, i Paesi del Golfo hanno ricondotto le relazioni “nell’alveo del dialogo e di una normalizzazione, per quanto possibile”.
In questo contesto teso ma aperto, il nuovo rapporto dell’Iaea rischia di complicare i delicati equilibri, ma potrebbe anche fungere da ulteriore incentivo a definire in tempi rapidi un’intesa pragmatica e forzare dinamiche negoziali – in attesa di un prossimo incontro Usa-Iran che secondo funzionari a conoscenza del dossier “ci sarà presto”.