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Tutte le ragioni per essere dalla parte di Israele. La versione di Velardi

Il direttore del Riformista, Claudio Velardi, non ci ha pensato due volte. Il suo giornale ha lanciato un appello per sostenere le ragioni dello Stato ebraico a cui hanno aderito quasi diecimila persone in poche settimane. Una contro-narrazione. Per ristabilire, nel panorama politico-mediatico italiano e non solo, un po’ di equilibrio. Proprio oggi pomeriggio al Teatro Rossini si tiene l’iniziativa del Riformista, “Dalla parte di Israele”. Un evento articolato “in cinque atti”, che vedrà la partecipazione di giornalisti, intellettuali, politici italiani e internazionali

Senza ambiguità, dalla parte di Israele. Perché, ricordando il leader repubblicano Ugo La Malfa (repubblicano vero, del Pri, non la paccottiglia degli ultimi tempi), la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme. Il direttore del Riformista, Claudio Velardi, non ci ha pensato due volte. Il suo giornale ha lanciato un appello a cui hanno aderito quasi diecimila persone in poche settimane. Una contro-narrazione. Per ristabilire, nel panorama politico-mediatico italiano e non solo, un po’ di equilibrio. Proprio oggi pomeriggio al Teatro Rossini si tiene l’iniziativa del Riformista, “Dalla parte di Israele”.  Un evento articolato “in cinque atti”, che vedrà la partecipazione di giornalisti, intellettuali, politici italiani e internazionali. Ed è proprio Velardi che, a Formiche.net, spiega il valore dell’iniziativa.

Direttore, com’è nato l’appello per Israele e cosa vi ha spinti a organizzare questo evento pubblico?

L’idea nasce da un’urgenza. Quella di rompere un clima soffocante, intellettualmente e moralmente. Abbiamo avvertito una sproporzione, una vera e propria asimmetria informativa, che ha trasformato Israele nel bersaglio simbolico di ogni male. Da qui, il bisogno di prendere parola, di dire una cosa semplice ma fondamentale: Israele ha diritto a difendersi, a esistere, e a non essere raccontato ogni volta come un aggressore per definizione. Essendo fra l’altro l’unica democrazia occidentale in quella parte di mondo.

C’è chi sostiene che Israele sia artefice di crimini o di voler silenziare le sofferenze palestinesi. Come risponde a queste critiche?

È una critica viziata da una semplificazione ideologica. Nessuno nega le sofferenze del popolo palestinese. Ma un conto è il dolore autentico, un altro è l’uso politico e distorto del dolore. Israele viene descritto come una potenza coloniale, dimenticando, ribadisco che è l’unica democrazia in quelle zone e che deve confrontarsi con regimi teocratici autoritari e sanguinari . I razzi lanciati da Hamas non nascono dal nulla, ma vengono sistematicamente giustificati come “reazioni”. Questa equazione – Israele uguale carnefice – è tossica, falsa e alimenta antisemitismo e antisionismo di ritorno. Due prodotti di queste narrazioni distorte e assolutamente unilaterali. Figlie di una scelta precisa: il dolore, i volti sofferenti, sono sempre quelli dei palestinesi. Perché le immagini che vengono fornite dai media sono queste. Gli israeliani sono invece sempre rappresentati in modo “freddo”.

Il suo intervento richiama tre livelli di racconto: visivo, semantico e storico. Come si compenetrano questi livelli?

“Perché sono le tre dimensioni con cui si costruisce una narrazione pubblica. Il primo livello è quello visivo: le immagini delle vittime palestinesi sono ovunque, quelle israeliane quasi assenti. È un’asimmetria dell’empatia. Il secondo è semantico: si nega a Israele il diritto all’autodifesa, come se fosse sempre e comunque colpevole. Il terzo è storico: il racconto secondo cui Israele sarebbe una potenza coloniale usurpatrice è una falsificazione profonda. Israele è nata per essere rifugio di un popolo perseguitato. Oggi viene processata mentre i regimi che la circondano restano impuniti.”

Quasi diecimila firme in poco tempo. Che segnale è?

Un segnale controcorrente. Abbiamo scoperto che c’è una parte di Paese che non ci sta, che non si riconosce nella narrazione mainstream. È una rete di intellettuali, professionisti, cittadini comuni che vogliono dire: “Basta con la demonizzazione sistematica di Israele”. È anche una forma di resistenza culturale all’omologazione. E il nostro giornale ha voluto essere il catalizzatore di questa energia. Senza contare che anche da parte di tutte le agenzie internazionali a partire dall’Onu in questi anni hanno sistematicamente accusato Israele delle peggiori nefandezze, senza però utilizzare gli stessi parametri con i regimi sanguinari che affogano nel sangue il dissenso.

L’iniziativa ha suscitato adesioni internazionali di grande rilievo. Come le interpreta?

Come un riconoscimento della serietà dell’iniziativa. Abbiamo avuto adesioni da personalità del calibro di José María Aznar, Daniel Pipes, Richard Kemp, Bat Ye’or. Non è folklore, è un’alleanza culturale e politica che rivendica i valori dell’Occidente: libertà, democrazia, verità. Valori che oggi trovano in Israele un presidio, nonostante tutto.


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