In questo antico scalo del Levante c’è un pluralismo di origine, di nativi, tutti nativi e tutti diversi, è questa la ricchezza d’origine di Beirut, che ha attirato così altre ricchezze, altre diversità, creando una sorta di New York mediterranea, che sarebbe un reato sciupare, per loro e per noi, che come loro siamo cittadini di questo Mediterraneo. Beirut, porto di mare del Levante con voce regionale, sta perdendo la voce? La voce di Beirut è un insieme di voci, diverse, anche difformi… Il racconto del viaggio, in questa città dai mille volti, di Riccardo Cristiano
Beirut, una città che evoca memorie diverse: da una parte il luogo simbolo di guerre sanguinose, interminabili, spesso a noi incomprensibili, feroci; dall’altra la città affascinante e misteriosa dove si trovava il libero pensiero arabo, il dissenso, i grandi intellettuali, gli spiriti liberi. Beirut è stata anche il luogo dove Oriente e Occidente sono riusciti a incontrarsi, a volte a fraintendersi, ma anche dove i ceti medi produttivi sono emersi come realtà sociale araba, a differenza di molti altri luoghi. E oggi che luogo è per noi Beirut? E per loro?
Dopo essere andato ogni anno, almeno una volta l’anno, a Beirut, dal 1990, ho smesso di andarci , di colpo, da quando è cominciata l’emergenza Covid: poi per emergenze personali ho seguitato a non poterci andare e la guerra recente, quella dello scorso anno, ha protratto questa assenza: fino a pochi giorni fa, quando sono salito sul volo che mi ha riportato a Beirut, finalmente. A spingermi è stato soprattutto il desiderio di rivedere amici che sono stati molto male e che ora volevo vedere, ma anche la curiosità di capire se Beirut ha ancora le risorse intellettuali e morali per emergere dalle polveri dei suoi enormi dolori, delle sue ferite, dei bombardamenti, delle distruzioni, di una devastante crisi economica che ha polverizzato i risparmi di un’intera città, lasciando tutte le persone per bene sul lastrico. A inizio 2020 i conti correnti dei libanesi sono spariti, poi è andato in macerie il porto cittadino, il gioiello che aveva fatto di Beirut l’ultimo grande scalo del Levante, da un secolo. Infine la guerra, la distruzione degli arsenali di Hezbollah, ma anche di tanti villaggi, o quartieri, dove quegli arsenali erano nascosti. Nessuno che conosca ne ha nostalgia, tutt’altro, ma per noi Beirut era diventata sinonimo di questa macchina miliziana di guerra ed esplosioni, progetti e intimidazioni, interne e internazionali. E ora?
Beirut, la capitale della cultura araba, musulmana e cristiana, mi si è presentata da subito avvilita, depressa, con un volto triste. Arrivando in città dall’aeroporto si nota subito che il trionfalismo di Hezbollah, i suoi segni di forza ostentata, gloriosa, sono spariti. Qualche distruzione si vede, ma non più di tanto. La matassa urbana nasconde le ferite profonde di Beirut sud, che sul vialone che dall’aeroporto conduce in città non si vedono. Quando si è fatta sera mi sono incamminato verso il centro cittadino, il quartiere delle eterne contese libanesi, di chi come Hariri lo ha voluto ricostruire per restituire un’anima a tutto il Paese, e chi lo ha voluto distruggere, per frazionare confessionalmente il Libano, riducendolo a una sommatoria di comunità frustrate, offese. Arrivare lì dove c’era il porto, saltato come una santabarbara grazie ai traffici segreti di tonnellate di esplosivo di Hezbollah il 4 agosto 2020, è stato un colpo al cuore: lo spettacolo è spettrale, ancora oggi si vedono solo rovine per centinaia e centinaia di metri, qualche silos in macerie è ancora lì, come i quartieri limitrofi, quelli della “Beirut cristiana”, che mostrano ancora le loro cicatrici urbane: qualche tetto da ultimare, qualche facciata rifatta ma senza i soldi necessari a fare un lavoro fatto bene; e tanto silenzio. Gemmayeh, la strada di accesso al quartiere cristiano che è proprio alle spalle del porto, l’avevo vista sempre frenetica, vitale: ora ci sono friggitorie, mezze vuote.
Rientrando in albergo ho notato che sul lungomare i palazzi che seguono il centro e danno inizio al tratto più noto della “Corniche”, quel paio di chilometri di lungomare che passato il centro cittadino arrivano al vecchio faro, sembrano tutti vuoti, bui, senza una luce: “Chi può è andato via, e chi non poteva andarsene non abitava certo in quei palazzi eleganti”, mi hanno fatto notare alcuni amici. È così? I guai hanno colpito prima di tutto i ceti medi, lasciando a Beirut ricchi di ricchezze ambigue, opache, oscure e poveri di povertà sempre più nude, scheletriche? Forse è proprio così. Me lo sono detto arrivando al ristorante; per mangiare senza rischiare guai intestinali bisogna andare “nei posti buoni”, la mancanza continua di corrente elettrica obbliga ad andare a mangiare da chi certamente ha un suo generatore potente, altrimenti il cibo può essere andato a male. Faccio così, una cena non principesca, a differenza del conto: 50 dollari a testa, senza vino. Per me è stata una festa cenare dopo tanti anni con due carissimi amici, ma ho anche potuto scoprire che tutto costa un occhio della testa a Beirut, ad eccezione delle sigarette. È la dollarizzazione, mi hanno detto. E in effetti i prezzi sono in dollari, ma se non hanno i dollari per darti tutto il resto, le piccole differenze te le danno in lire libanesi: e si tratta di una valanga di soldi. La banconota più grande, le centomila lire libanesi, che per decenni sono valse 65 dollari, ora ne valgono uno. Centomila lire, quella banconota che è sempre stata sufficiente per pagare un ottimo pasto, compreso il vino, ora serve appena per comprare una bottiglietta di acqua minerale, di quelle piccole. Queste però ben presto si sono dimostrate annotazioni esteriori: il vero problema è che tutti i conti correnti in valuta pesante dei libanesi sono spariti. Chi nel 2020 aveva in banca i suoi risparmi da allora ha perso tutto, di punto in bianco, e nessuno crede che un giorno riavrà i soldi che aveva depositato sul suo conto corrente. È successo questo: la tua filiale bancaria li ha prestati alla Banca Centrale, che a sua volta li ha prestati al governo, che li ha spesi e non ne ha: chi ha sbagliato? La tua banca? La Banca Centrale? Il governo?
Cercare quei soldi è difficile, come la mia ricerca dei ceti medi, vera risorsa di Beirut, che diviene nel giro di poche ore una evidente illusione. I poveri abbondano, i bambini cenciosi ti compaiono improvvisi davanti, nel mezzo di una strada dove le auto corrono, cercando un’elemosina che non arriverà. E loro continuano a camminare. Sono bambini o bambine siriane, magari nati qui dopo che i loro genitori sono fuggiti dalla Siria di Assad? Stanno aspettando che la situazione a Damasco migliori per togliere il disturbo e tornare in un Paese più straziato di questo? O sono bambini o bambine sciiti, fuggiti dal sud devastato dalla guerra e che qualcuno forse ospita in questa parte di città, la parte non colpita dalla guerra? Anche per questo il traffico è pazzesco: un milione di altri libanesi, quelli che vivevano nel Libano che è andato distrutto, ora vagano da queste parti, come i siriani che ancora non possono tornare in una Siria che è ancora ridotta a brandelli.
Volevo cercare la capitale culturale del mondo arabo, capire se possa farcela anche questa volta a dare una visione araba, mediterranea, occidentalizzata a questo nuovo Levante arabo ridotto in macerie. Da straniero questa speranza l’ho sempre avvertita possibile per la diffusione ambigua dei suoi ceti medi, per la vivacità dei suoi dissidenti di tante provenienze diverse; siriani, egiziani, palestinesi, kuwaitiani, iracheni, se erano dissidenti, se avevano un pensiero loro, beh lo venivano a esprimere qui. E questi uomini liberi, dissidenti, fuggiaschi, entravano nello spirito della città, che Samir Kassir ha genialmente definito “città araba ma strana, strana ma araba”.
Un produttore cinematografico beirutino che si è offerto di accompagnarmi a trovare un carissimo amico, il mio maestro, ricoverato in un centro riabilitativo in montagna, sul Monte Libano, mentre mi portava da lui mi ha detto di sì: lui ne è sicuro, Beirut ce la farà anche questa volta. Liberatasi dalla spirale violenta di Hezbollah che spesso ha colpito Beirut, non solo in occasione della distruzione del porto, dovrà pagare ancora il prezzo della distruzione, della crisi economica, ma tornerà. Le energie ci sono, mi ha detto sicuro. Dopo averlo ringraziato per avermi portato dal mio amico, un desiderio per me molto importante, gli ho chiesto se rientrando in città poteva farmi passare per il quartiere armeno, Burj Hammoud: ci tengo sempre a rivederlo, ma ogni volta che ci sono andato da solo mi sono perso, e così gli ho chiesto di portarmici lui. Lì mi sono ritrovato nella Beirut che conoscevo e che mi è parsa essere ancora come era, popolare, affettuosa, semplice, vera: siamo entrati in una stupenda bottega che sembra sopravvissuta dall’Ottocento così com’è, una delle più belle botteghe dove si trovano lane di ogni tipo. Il proprietario però non la pensava come il mio amico: “Vorrei tanto liberarmi da questo Paese, ma questo Paese non si decide a volersi liberare di me”.
Per me è più facile capire questo pessimismo che l’ottimismo del mio amico produttore cinematografico. Ma per le strade di Beirut ci sono entrambi, sebbene la città stia perdendo il suo carattere, una sorta di perversa dubaizzazione la sta distruggendo sotto una colata di grattacieli inutili, frutto dell’assenza di un piano regolatore per cui è stato facile a molti distruggere una vecchia casa di pietra, di quelle incantevoli, e costruire al suo posto un grattacielo di cemento armato, di quelli di quindici piani e che spesso restano sfitti per l’eternità, ma fanno sperare ai proprietari affari veloci. A costruire quei cubi di cemento serve poco tempo qui.
La bella Beirut sparisce nel mito affarista di diventare come Dubai, un parco giochi per ricchi – ricchi che si fa infilando tutti questi orribili grattacieli in stradine sottili come vene urbane, piene di negozi vuoti, senza un cliente che sia uno. Oggi è così, mi dice salutandomi il mio amico produttore cinematografico, ma tante altre volte è stato così: poi si è ripartiti. Le risorse ci sono, il Levante è sempre questo qui.
Spero che il suo ottimismo mi contagi, ma intorno a me vedo sempre più volti di poveri, o di ricconi che passano sulle loro auto interminabili. Anche nel distretto commerciale, Hamra, va così. Negozi vuoti, prezzi altissimi, e il vecchio amico rientrato per le vacanze estive dal Canada dove è andato a vivere dà voce a un pessimismo diverso, peggiore: il Libano era fatto con il lego, mi dice, ora si sta smantellando, pezzo a pezzo. Per tenerlo in piedi non basta avere un passato: quello che tutti dite che ci sia stato, va bene, ma serve un’idea di futuro. Una capitale culturale, come la chiami tu, non si fa solo con le idee di ieri, ma tirando fuori da quelle le visioni per il domani.
Per me si è fatta l’ora di ripartire e mi guardo ancora attorno: se Dubai diventa la capitale culturale del domani si perde qualcosa, mi dico. È qui, in questo antico scalo del Levante, che c’è un pluralismo di origine, di nativi, tutti nativi e tutti diversi, è questa la ricchezza d’origine di Beirut, che ha attirato così altre ricchezze, altre diversità, creando una sorta di New York mediterranea, che sarebbe un reato sciupare, per loro e per noi, che come loro siamo cittadini di questo Mediterraneo. Beirut, porto di mare del Levante con voce regionale, sta perdendo la voce? La voce di Beirut è un insieme di voci, diverse, anche difformi. Questo l’ha resa capitale culturale, non soltanto la memoria dei suoi caffè letterari oggi spariti, ma la capacità di essere liberale, comunista, borghese, operaia, cristiana, musulmana, missionaria, combattente, anche terrorista ovviamente, e incline al mercimonio, alla corruzione, all’ambiguità, alla poesia. E partendo mi dico che se i cristiani non investono su questa città, nella sua indispensabile pluralità, mi è difficile capire su cosa lo potrebbero fare, da queste parti.