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Cent’anni di Giorgio Napolitano. Il ricordo di una grande coscienza repubblicana

Nel 1976, appena ventunenne e responsabile economico della Federazione Giovanile Repubblicana, scrissi un editoriale critico sulla legge Anselmi. Giorgio Napolitano, allora responsabile economico del Pci, ne fu contrariato. Anni dopo, da Presidente, ricordava ancora quel giovane audace: segno della sua memoria e del suo rispetto per il confronto

Si sono svolte in questi giorni importanti celebrazioni per il centenario dalla nascita dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Compreso un convegno scientifico interessantissimo di 2 giorni all’aula Spadolini del Senato. Ho avuto spesso nel corso della mia vita e carriera incontri con una grande personalità come il Presidente Napolitano. Iniziati con un aspetto che per me fu allora ed è ancora oggi un vero e proprio punto d’onore.

Ricordo benissimo quando nel 1976 all’età di 21 anni, oltre ad essere uno studente di eccellenza della facoltà di giurisprudenza della Sapienza e del Collegio dei Cavalieri del Lavoro Lamaro Pozzani ero già responsabile economico della Federazione Giovanile Repubblicana, specie in quanto pupillo di un grande statista come Ugo La Malfa. Nell’esercizio delle mie limitate funzioni mi interfacciavo con il responsabile economico del PRI di allora, Giorgio La Malfa, da poco reduce di super specializzazioni maturate a Cambridge e al Mit dove era stato allievo del grande economista Franco Modigliani. Imbarazzato per la mia limitatezza rispetto a personalità di quel livello, per disporre di una migliore preparazione ero andato fuori facoltà a sostenere un esame col grande Federico Caffè. E poi nell’esercizio delle mie funzioni incappai per la prima volta nel presidente Napolitano.

In quelle settimane e mesi la ministra del lavoro di allora, Tina Anselmi, stava elaborando la prima legge per fronteggiare la disoccupazione giovanile in Italia (quella che poi sarebbe stata la legge 285 del 1977). I repubblicani hanno sempre avuto un palato molto esigente sulle questioni economico-sociali. Avevo goduto fra l’altro della formazione di Giovanni Ferrara, grande storico e consigliere politico di La Malfa, zio di Giuliano, fratello di Maurizio e unico liberale della famiglia. Ferrara era il Direttore de La Voce Repubblicana e in più occasioni mi aveva chiesto di scrivere degli editoriali a tema economico per il giornale del PRI. Erano gli anni della Solidarietà nazionale e lo stesso La Malfa mi aveva chiesto di anticipare la Solidarietà Nazionale presso i tavoli in atto delle giovanili dell’epoca. Scrissi però in questo quadro un editoriale sulla vergogna e i limiti di quella legge Anselmi in fieri che fu poi varata dal governo Andreotti del 1977. In quell’articolo oltre a criticare i contenuti di quella legge, scrissi soprattutto che tra democristiani e comunisti c’era una condivisione del peggior assistenzialismo. Anche se rispetto alle leggi sul lavoro del ministro del lavoro Di Maio (si pensi al reddito di cittadinanza) si trattò di una legge ottima, in quanto aiutò veramente molti giovani a trovare lavoro.

Ebbene, il fatto fu che Giorgio La Malfa un giorno di quel 1976 mi chiamò e mi fece un grande cazziatone, come si dice al Sud, per quell’editoriale. Aveva, infatti, avuto un incontro con Giorgio Napolitano, in quel momento responsabile economico del Pci, e lui aveva posto un veto rispetto a posizioni di quel tipo. Io risposi a Giorgio che mi aveva insegnato lui che i repubblicani avevano palati difficili. Lui mi disse che avrebbe provveduto lui a sistemare la questione del rapporto con l’onorevole Napolitano e di andare avanti nelle mie critiche. Ritrovai poi una forma di contatto con il Presidente Napolitano quando a 25 anni ero già un alto dirigente della Lega delle cooperative, avendo lavorato prima nel suo servizio studi. Nell’ufficio accanto al mio c’era la signora Clio, ottima avvocata dell’ufficio legale della Lega delle cooperative. Entrambi avevamo il brutto vizio di fumare tanto e questo ci permise di avere tanti colloqui e confronti in quelle occasioni. Un’abitudine che mi permise di confrontarmi con altri grandi fumatori seriali a Palazzo Montecitorio come Marco Pannella, Antonio Angelucci, Gianfranco Funari e più limitatamente Carlo Calenda.

Da consigliere parlamentare della Camera ritrovai poi Napolitano come grande presidente della Camera cui resi visita solo due volte. E che quando ci incontrammo mi ricordò grazie alla sua formidabile memoria quell’evento del 1976. Quando poi salì meritatamente agli onori del Quirinale non chiesi mai di andargli a rendere visita. Cosa che sarebbe stata facile. Avevo troppo rispetto per quel grande uomo che fu il primo comunista ad avere il visto degli Usa e che proprio negli Stati Uniti svolse una missione fondamentale. Una missione di cui sapevo tutto perché gli aspetti più importanti furono organizzati dal mio grande maestro Joseph La Palombara, preside a Yale, e da un altro grande maestro come Lamberto Dini, che all’epoca era direttore esecutivo dell’Fmi, che organizzò la parte relativa agli incontri economici. Joseph che è stato uno dei più grandi uomini e maestri della mia vita come lo furono Antonio Meccanico e Guglielmo Negri (di cui ricorre quest’anno il 25° dalla scomparsa) è sempre stato uno dei più grandi veri amici del Presidente Napolitano. Che quando in estate veniva a Roma faceva tanti pranzi solo con me mentre svolgeva riservate cene a due con Napolitano. Nonostante avesse avuto un ottimo segretario generale del Quirinale, già segretario generale della Camera (come nella migliore tradizione di quella istituzione incarnata da Antonio Maccanico a Gaetano Gifuni fino a Ugo Zampetti) come Donato Morra, non era mai stato un uomo che necessitava di grandi staff. Anche perché era un grande professionista che amava curare in prima persona i dettagli di tutto quello che faceva con la sua testa e la sua penna. Mentre un punto di forza del Presidente Mattarella è quello di avere uno degli staff più competenti e pluralista della storia repubblicana.

Ogni volta che mi è capitato di partecipare a qualche celebrazione ufficiale e di incontrare il Presidente Napolitano ricordo che lui mi lanciava spesso un sincero “Buongiorno Tivelli”. Un’affermazione che sembrava un po’ un rimbrotto un po’ un’attestazione di stima per quel ragazzone che lo aveva incalzato coraggiosamente tanti anni prima. Ovviamente per la regola ferrea a cui mi ero attenuto in tutta la mia carriera, come mi aveva insegnato mio padre, non gli ho mai chiesto nulla, ma soprattutto ho cercato sempre di non disturbarlo.


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