Byd e le sue sorelle continuano a mettere sotto pressione il mercato europeo dell’auto, sfruttando un vantaggio competitivo apparentemente incolmabile. A questo punto molto meglio mettere gli investimenti del Dragone su un sentiero di regole, controlli e stretta sorveglianza, così da sterilizzarne eventuali effetti nocivi per l’economia e l’industria
Forse ha proprio ragione il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, quando, senza troppi giri di parole e dal G7 in Sudafrica, manda un avviso ai naviganti d’Occidente. Sì, la sovracapacità della Cina, vale a dire produrre più di quanto si consumi in patria, sta logorando le manifatture straniere. E nel conto è compreso anche l’automotive. Come un rullo compressore, i costruttori cinesi stanno infatti mettendo alle corde l’industria delle quattro ruote europea, che non riesce a stare al passo delle fabbriche del Dragone (più veicoli prodotti e a costo minore). L’avanzata di Byd è solo l’esempio più lampante di questa gara apparentemente senza storia.
Eppure, non pochi economisti sono ancora convinti che ci sia qualche carta da giocare. Tra questi, quelli del Bruegel, uno dei più autorevoli centri studi del Vecchio continente. Il quale indica una strada. “L’impegno dell’Unione europea per la decarbonizzazione del trasporto su strada si basa sulla rapida transizione ai veicoli elettrici. Tuttavia, le case automobilistiche europee si trovano ad affrontare costi di produzione elevati e una capacità limitata delle batterie, che le rendono impossibilitate a fornire veicoli elettrici a prezzi accessibili per il mercato di massa su larga scala. I produttori cinesi, invece, hanno colmato questa lacuna e i loro modelli competitivi in termini di costi rappresentano ora un quarto delle vendite di veicoli elettrici nell’Ue. Le aziende cinesi sono inoltre diventate importanti investitori nelle filiere di fornitura di batterie e veicoli elettrici in Europa”, scrive il Bruegel.
Ora, il problema è che questo tsunami ha un prezzo. Questo afflusso di investimenti diretti esteri cinesi, sotto forma di auto elettriche, “pone l’Europa di fronte a un dilemma strategico, con i benefici a breve termine sono evidenti: gli investimenti cinesi espandono la capacità produttiva, sostengono l’occupazione regionale e accelerano i tempi della decarbonizzazione. Ma comportano anche rischi significativi per il continente, tra cui distorsioni del mercato derivanti da una concorrenza presumibilmente sovvenzionata, dunque sleale, vulnerabilità della sicurezza pubblica legate all’accesso ai dati e al controllo estero delle risorse digitali, dipendenza economica a lungo termine e strumentalizzazione delle esportazioni di materie prime essenziali”.
E allora, come rispondere, o almeno provare a farlo? “La Commissione europea ha introdotto dazi sulle importazioni cinesi di veicoli elettrici, ha rafforzato il suo pacchetto di strumenti di difesa commerciale e ha lanciato nuove iniziative di politica industriale, ma gli approcci degli Stati membri dell’Ue agli investimenti cinesi rimangono frammentati e incoerenti”, chiarisce il Bruegel. “Ciò mina il potere contrattuale collettivo dell’Ue proprio quando deve agire di concerto”. E dunque, l’Europa “non dovrebbe assorbire passivamente il capitale cinese, né dovrebbe cercare di bloccarlo del tutto. Deve invece definire i termini dell’impegno per allineare gli investimenti esteri agli obiettivi climatici, industriali e di sicurezza dell’Ue”. In altre parole, inutile alzare muri, ma semmai incanalare gli investimenti cinesi nelle maglie delle norme europee, così da renderli meno pericolosi per l’economia.
Questo è, d’altronde, “l’attuale bivio dell’Ue in materia di politica industriale per i veicoli elettrici. Bruxelles deve accelerare la propria transizione verde, gestendo al contempo la crescente dipendenza strategica dalle tecnologie straniere, in particolare cinesi. Come abbiamo dimostrato, gli investimenti cinesi in veicoli elettrici e batterie non sono né intrinsecamente benigni né maligni. Il loro impatto dipenderà dalla capacità dell’Europa di governare i termini dell’integrazione, sfruttando il proprio potere di mercato non per escludere, ma per disciplinare e indirizzare gli investimenti. Ciò significa applicare con risolutezza le attuali norme in materia di localizzazione dei dati, sicurezza informatica e lotta all’elusione, e migliorare il coordinamento tra gli Stati membri per evitare corse ai sussidi o arbitraggio normativo. Altrettanto cruciale, è necessario integrare sostenibilità, innovazione e condizioni di lavoro nell’intero spettro di incentivi, dai sussidi per i veicoli elettrici dal lato della domanda alle norme sulle flotte aziendali e agli strumenti di finanziamento dell’Ue”.