Da qui a due anni, se le barriere tariffarie imposte dagli Usa alla Cina non dovessero abbassarsi, Pechino lascerebbe sul terreno quasi 500 miliardi di dollari in termini di mancate esportazioni sul mercato americano. Il deficit con il Dragone si appianerebbe anche se sui minerali critici Washington dovrebbe accelerare verso la piena autonomia
L’Europa, forse, ci rimetterà dall’accordo commerciale raggiunto con gli Stati Uniti, due giorni fa. Ma non è che alla Cina vada tanto meglio. Nei giorni in cui Washington e Pechino tentano l’intesa in extremis per chiudere la partita dei dazi (le delegazioni dei due blocchi si sono acquartierate, dopo Ginevra e Londra, a Rosenbad, Stoccolma, palazzo iconico sede del governo svedese), con l’obiettivo principale che resta la sospensione dei dazi per altri 90 giorni, visto che il 12 agosto (data finale imposta dagli americani) è già dietro l’angolo, arriva il primo conto per il Dragone. Decisamente amaro, almeno secondo la Toulouse School of Economics.
Per esempio, da qui al 2027 le esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti potrebbero diminuire di quasi mezzo trilione di dollari (485 miliardi di dollari). E, considerata la posizione dominante della Cina nel commercio con gli Stati Uniti, tale declino sarà maggiore del calo totale delle esportazioni globali verso gli Stati Uniti se si considerano tutte le nazioni nel modello. Tali previsioni si basano sugli ultimi dazi applicati tra Stati Uniti e Cina e su come il commercio globale potrebbe essere riconfigurato di conseguenza.
Attualmente, gli Stati Uniti applicano dazi complessivi del 51% sui prodotti cinesi, mentre le esportazioni statunitensi verso la Cina sono soggette a dazi del 32,6%. Gli Usa hanno minacciato dazi molto più elevati sui prodotti cinesi se non si raggiungerà un accordo entro il 12 agosto, il che potrebbe portare le aliquote tariffarie fino al 145%. Va detto che il Dragone oggi controlla il 70% delle terre rare sparse per il mondo. Questo, in potenza, è un elemento da tenere in considerazione, perché senza l’afflusso di minerali critici dalla Cina, gli Stati Uniti, come peraltro stanno già facendo, dovranno cercare altre fonti di approvvigionamento.
“In molti di questi scenari, i Paesi avranno una naturale tendenza a riorganizzare i loro rapporti commerciali allontanandoli dagli Stati Uniti”, ha affermato Cesar Hidalgo, professore di economia alla Toulouse School of Economics. E anche quei Paesi legati all’economia manifatturiera cinese subiranno una debolezza delle esportazioni americane. Il Vietnam, un Paese che ha beneficiato della strategia di filiera “Cina più uno”, che ha permesso ai produttori di evitare alcuni dazi sui prodotti cinesi, potrebbe vedere le esportazioni verso gli Stati Uniti diminuire di 102 miliardi di dollari entro il 2027.
E anche la Corea del Sud subirà un calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti pari a 49 miliardi di dollari. A questo punto la domanda è: chi si avvantaggerà di più della frenata delle esportazioni cinesi verso gli Usa? La Russia certamente, che si aggiudicherà la quota maggiore dell’incremento degli scambi commerciali con la Cina, pari a 69,8 miliardi di dollari. Tra gli altri paesi con cui la Cina amplierà le sue relazioni commerciali figurano Vietnam (34,4 miliardi di dollari), Arabia Saudita (28 miliardi di dollari), Corea del Sud (27,9 miliardi di dollari), Australia (24,6 miliardi di dollari) e Giappone (21,4 miliardi di dollari).