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Sui dazi di Trump buona la linea Meloni. Lombardi spiega perché lo scontro con gli Usa va evitato

L’Unione avrebbe dovuto negoziare con maggiore proattività un accordo sulle tariffe attorno al 10%, simile a quello che il Regno Unito è riuscito a strappare muovendosi con rapidità. La strategia di Meloni appare quella più politicamente calzante rispetto al contesto strategico: cercare spazi di dialogo e vantaggi concreti per le nostre imprese, valorizzando l’elemento di dialogo piuttosto che della contrapposizione. Un accordo italiano slegato dal contesto europeo? Non è fattibile. Colloquio con il docente della Luiss, Domenico Lombardi

Ci risiamo. Ancora una volta, l’Ue rischia di apparire come il gigante burocratico malato di nanismo politico. Sono ore febbrili per la trattativa sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea dopo la lettera della Casa Bianca che fissa la percentuale delle tariffe aggiuntive al 30%. Una soglia che rischia di compromettere la competitività delle imprese europee e italiane. A differenza del Regno Unito, che è riuscito a ottenere un accordo commerciale più favorevole con Washington, Bruxelles sembra essersi mossa con troppa lentezza e scarsa visione prospettica. Ne è convinto Domenico Lombardi, professore alla Luiss ed esperto di economia internazionale, che nella sua intervista a Formiche.net non nasconde una certa amarezza per le occasioni mancate.

Professor Lombardi, dove ha sbagliato l’Europa?

L’Unione ha perso un’occasione chiara. Avrebbe potuto — e dovuto — negoziare con maggiore proattività un accordo sulle tariffe attorno al 10%, simile a quello che il Regno Unito è riuscito a strappare muovendosi con rapidità e pragmatismo. Trump stava cercando una via d’uscita onorevole, e noi non abbiamo colto l’opportunità. Oggi invece ci ritroviamo a dover partire da un 30% che pesa enormemente sulle imprese europee.

È una responsabilità politica o burocratica?

Entrambe. Da un lato c’è stata una gestione a livello Ue eccessivamente burocratica della trattativa, dall’altro una carenza di visione politica. Sarebbe stato utile offrire a Trump un risultato politicamente spendibile — un accordo apparentemente al 10 per cento, ma con esenzioni mirate per i produttori europei. Invece, si è preferito irrigidirsi. Ora, questo approccio sta danneggiando il tessuto produttivo europeo, aumentando l’incertezza per le imprese a prescindere dal livello tariffario su cui si riuscirà a trovare una quadra.

Nel dibattito interno all’Unione sembrano emergere due linee. Quale quella che deve prevalere?

C’è una prima posizione, pragmatica, che punta a valorizzare il potere negoziale europeo facilitando il dialogo con Washington evitando contrapposizioni frontali. È sostenuta, tra gli altri, dal governo italiano guidato da Giorgia Meloni. Poi c’è una seconda corrente, guidata dalla Francia, che invece tende ad accentuare la contrapposizione. È una linea più conflittuale, che rischia di rivelarsi miope perché tende ad antagonizzare frontalmente l’amministrazione americana. Da ultimo, c’è la linea di chi vorrebbe – come la Lega – un accordo Italia-Usa separato dal quadro europeo – una proposta, tuttavia, difficilmente perseguibile.

Quanto pesa, in questo quadro, la posizione italiana?

L’Italia ha una postura coerente con i suoi interessi industriali. La strategia del presidente del Consiglio Meloni appare quella più politicamente calzante rispetto al contesto strategico: cercare spazi di dialogo e vantaggi concreti per le nostre imprese, valorizzando l’elemento di dialogo piuttosto che della contrapposizione. Ma serve una regia europea. L’Italia, da sola, non può negoziare un accordo separato con gli Stati Uniti. La domanda da porci è: qual è la strategia comune più utile per i produttori italiani ed europei?

Il riferimento alla lettera di Trump sembra aver segnato un punto di svolta. Lei come la vede?

Sì. Prima dell’arrivo della lettera dalla Casa Bianca c’era ancora spazio politico per una soluzione più equilibrata. Con quella mossa, Trump ha alzato la posta e ridotto i margini di manovra per l’Europa. Von der Leyen aveva tra le mani una finestra strategica rilevante. Oggi quella finestra si è, almeno in parte, chiusa.

Come leggere allora i rapporti Usa-Ue alla luce di questa dinamica?

La lettera di Trump non implica un cambio radicale di postura americana, ma conferma una tendenza: chiedere all’Europa una condivisione più equa degli oneri legati alla gestione dell’ordine internazionale. In questo ragionamento, condivisibile o meno, gli Stati Uniti pretendono un prezzo d’ingresso al loro sistema. Ma attenzione: i destini economici e geopolitici di Europa e Stati Uniti restano intrinsecamente legati. Alimentare contrapposizioni non fa che indebolirci e gli Stati Uniti ne sono perfettamente consapevoli.

E sul fronte industriale?

La produzione italiana, seguendo quella tedesca, sta, da tempo, subendo un ridimensionamento. È essenziale, pertanto, evitare una deriva conflittuale che ne possa aggravare la dinamica. Il rischio, altrimenti, è di compromettere la competitività del nostro export proprio mentre l’industria fatica a riprendersi. Oggi ripartiamo in salita, e l’incertezza — in un contesto globale già complesso — non fa che aumentare il danno per i nostri produttori, a prescindere da come si chiuderà questa partita.


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