L’intesa raggiunta contiene aspetti positivi per l’Ue accanto a quelli negativi. Ad esempio, la reciprocità nell’applicazione della tariffa di base. Di contro, l’Europa per mantenere alla sua industria manufatturiera un accesso, seppur ristretto, al grande mercato americano paga al grande alleato un prezzo elevato in termini di scambi e di predominio nei servizi digitali, tassazione delle imprese americane ed attrazione di capitali. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Anche in assenza di tutti i dettagli sui termini dell’accordo tra la presidentessa della Commissione Europea e il Presidente americano, l’intesa a prima vista appare sfavorevole agli interessi economici dell’Unione. Rimane, tuttavia, incerto fino a che punto lo sia e discutibile perfino se lo sia o no, perché i punti di vista da cui valutarlo sono diversi ed opposti su alcuni fronti. Non si può nemmeno dire che sciolga le incertezze sul futuro degli scambi commerciali tra le sue aree, perché non è ancora chiara la portata delle concessioni che sui fronti del commercio mercantile, dei servizi e dei flussi di capitale la parte europea abbia fatto alla controparte.
Quel che è certo è che i negoziatori europei si sono affacciati al tavolo negoziale da una posizione di debolezza oggettiva, pur rappresentando il principale partner commerciale degli americani, in quanto detengono la più alta quota (18,3%) degli scambi americani (606 miliardi nel 2024), più di quelle di Messico, Cina e Canada. Il motivo della debolezza sta nel fatto che l’Ue per la sua crescita è interdipendente col mercato americano molto più di quanto gli americani col mercato europeo. Di fatto, l’import-export dell’Ue con l’estero rappresenta il 102% del suo Pil, contro il 27% degli Usa. Limitandosi agli scambi bilaterali, il commercio con l’Ue ammonta al 3,4% del Pil americano, a fronte del 4,9% per quello europeo. In altri termini, l’Unione ha molto più da perdere in un confronto commerciale con gli Usa rispetto a quest’ultimo.
Le posizioni si rovesciano negli scambi di servizi, perché la bilancia degli scambi risulta notevolmente a favore delle grandi compagnie americane. Ma la debolezza europea si misura anche in termini politici. Da un lato del tavolo, un negoziatore per 27 paesi con gran disparità di interessi e pesi politici, un negoziatore le cui decisioni in seguito possono essere respinte dai paesi che è chiamato a rappresentare. Dall’altro lato, un presidente irruente, minaccioso, desideroso di far valere la sua forza e spalleggiato da un Congresso consenziente. Sullo sfondo campeggia la vulnerabilità europea sul piano della difesa e della sicurezza, che si traduce in una grande dipendenza dall’ombrello protettivo degli americani.
Di fronte a queste disparità soltanto le abilità di un Talleyrand al Congresso di Vienna avrebbero potuto riportare le posizioni alla pari. Nemmeno le minacce di grandi ritorsioni commerciali dell’Ue avrebbero funzionato per mitigare le pretese americane perché eventuali limitazioni all’import o all’export europei non presentano quell’importanza strategica per gli Usa pari al blocco cinese alla vendita delle terre rare. Appare anche come un errore negoziale aver ceduto alle richieste di esonerare le società americane dalla tassazione prevista da alcuni accordi internazionali ancor prima del raggiungimento dell’intesa sul fronte commerciale.
La speranza europea di ottenere in tal modo un’intesa meno sfavorevole non si è concretizzata. Va ricordato che al vertice del G7 in Canada nell’interesse delle società americane fu concordato di esentare le grandi compagnie dalla tassazione minima globale in considerazione delle imposte che pagano al loro fisco. Questo filone negoziale andava ricondotto nell’ampio negoziato tariffario e trovare soluzione in un accordo complessivo più bilanciato tra le parti. Sarebbe interessante conoscere le ragioni europee perché non si è seguito questo approccio.
Ma come valutare l’intesa raggiunta? Rispetto al sistema tariffario antecedente la presidenza Trump un dazio al 15% comporta un aumento da tre a più volte delle barriere tariffarie su gran parte dei prodotti, con punte più alte (dazio al 50%) per acciaio, alluminio e forse rame. A confronto con i dazi introdotti da Trump (30%) e poi sospesi per dar corso al negoziato, l’accordo raggiunto allevia il peso incombente e mira a ridare certezze alle imprese. Queste dovranno in ogni caso rivedere i loro piani e le catene di fornitura, e adeguarsi alle altre clausole dell’intesa. Nella fase attuativa le parti dovrebbero fare leva sullo spirito a cui l’accordo è ispirato ed intitolato, ovvero “Accordo di cooperazione sul commercio reciproco, equo ed equilibrato” (sic).
Le clausole concordate non riguardano soltanto le tariffe perché comprendono quote all’importazione. Per acciaio e alluminio saranno stabilite, peraltro, quote a dazi molto bassi o nulli. Per le automobili e i farmaceutici i dazi non supereranno il 15%, un livello più basso di quanto applicato finora alle auto e di quello minacciato per i farmaceutici. Per una lista di prodotti non sarà applicato alcun onere, in sostanza perché è nell’interesse degli americani non applicarlo, a parte gli europei. Si tratta di aerei, alcuni prodotti chimici, medicinali generici, macchine per i semiconduttori, risorse naturali, sostanze critiche e prodotti agricoli con esclusione di quelli sensibili. Nessun accordo sui vini e gli alcolici.
Sotto questi profili l’intesa si presenta meno sfavorevole del temuto, ma le altre parti implicano per l’Ue obblighi distorsivi rispetto alle convenienze possibili e alle esigenze dell’economia europea. In particolare, l’Ue dovrebbe facilitare l’accesso ai prodotti americani, snellire le relative pratiche burocratiche, allentare gli standard qualitativi e le certificazioni sanitarie per l’agro-alimentare, rinunciare a imporre tariffe sull’uso della rete digitale per il commercio online e non porre dazi sulle trasmissioni elettroniche. In breve, per un verso le imprese europee potrebbero beneficare delle misure di sburocratizzazione, peraltro dovrebbero fronteggiare la concorrenza più agguerrita dei prodotti americani. Nell’immediato, si aggraverebbe, pertanto, lo squilibrio della competitività europea in alcuni comparti merceologici, ma si accentuerebbe lo stimolo all’efficienza.
Altri impegni limitano la convenienza europea a rivolgersi al fornitore più conveniente per il suo fabbisogno energetico. In specie, l’Unione si impegna ad acquistare 750 miliardi di dollari di prodotti energetici dagli Usa fino al 2028. Nello stesso periodo si fa carico di dirottare verso gli USA 600 miliardi di investimenti in aggiunta ai 100 miliardi che le compagnie europee effettuano annualmente. Questa appare come la clausola più inquietante dell’accordo, perché in palese contrasto con l’intento della Strategia europea per la competitività di fare in modo che il risparmio europeo si indirizzi maggiormente verso le imprese europee piuttosto che andare oltreoceano. In realtà, si tratta di rinnegare l’orientamento recentemente varato e anche sostenuto nel Rapporto Letta per accentuare la convenienza per i capitali europei a indirizzarsi verso l’economia americana. Un preoccupante rovesciamento di obiettivi e un’incoerenza nelle azioni svolte su differenti versanti.
L’incoerenza si ripete nell’affrontare il tema del potenziamento degli armamenti per la difesa. L’Unione si rivolgerà agli americani per acquistare equipaggiamenti per un importo non specificato. Analogo impegno all’acquisto di semiconduttori americani, implicitamente a scapito dei produttori asiatici. In parte si tratta di una necessità dettata dall’avanzamento della tecnologia americana rispetto a quella europea. Nondimeno, accettando questa preferenza si assottigliano le possibilità di potenziamento dell’industria europea con la conseguenza di perpetuare la dipendenza europea dalle scelte di Washington in fatto di licenze di armamenti e semiconduttori con vincoli al loro impiego. Al contempo, si va in direzione opposta all’obiettivo di incentivare i progetti in comune tra gli europei per sviluppare più avanzati sistemi di arma e l’industria elettronica.
Avrebbe l’Unione potuto concedere meno e ottenere un migliore bilanciamento dei termini tra le due parti? Apparentemente il Regno Unito vi è riuscito spuntando una tariffa di base al 10% e trattando da fuori dell’Ue dalla posizione di un’economia meno vasta e appellandosi alla “relazione speciale” che ha stabilito da decenni mediante una stretta alleanza con l’America. Avrebbe giovato all’Unione mostrare maggiore assertività nello smantellare le affermazioni secondo cui l’Europa si sarebbe indebitamente arricchita dal più agevole accesso al mercato americano a confronto col mercato europeo, acquisendo un grande surplus negli scambi merceologici? Avrebbe dovuto richiamare la lunga alleanza con gli americani e il comune impegno nel difendere i principi della democrazia occidentale?
A questi legittimi interrogativi non è possibile dare una risposta plausibile in un negoziato in cui la strategia del presidente americano è consistita nel testare fino in fondo la capacità degli europei di resistere alle sue pressioni e minacce, come avvenuto con la Cina. Parimenti, non è dato sapere che sviluppi avrebbe l’intesa se non fosse ratificata dal governo o dal parlamento di qualche grande paese membro che ha già avanzato critiche. Rimettere in discussione l’accordo avrebbe poche probabilità di rendere gli americani più accomodanti e che non ne facciano un’occasione per una nuova prova di forza.
In definitiva l’intesa raggiunta contiene aspetti positivi per l’Ue accanto a quelli negativi. Ad esempio, la reciprocità nell’applicazione della tariffa di base, ovvero anche le esportazioni americane verso l’Europa vi sono assoggettate, la chiarezza del trattamento da applicare in diversi (ma non tutti) settori cruciali, l’impegno a evitare che paesi terzi ne traggano benefici aggirando le regole sull’origine dei prodotti e la disponibilità a cooperare per risolvere le questioni aperte sulle barriere non-tariffarie.
Di contro, l’Ue per mantenere alla sua industria manufatturiera un accesso, seppur ristretto, al grande mercato americano paga al grande alleato un prezzo elevato in termini di scambi e di predominio nei servizi digitali, tassazione delle imprese americane ed attrazione di capitali. Quali che saranno le future conseguenze dell’accordo, dal negoziato esce l’immagine di una Ue con un’economia vulnerabile e non coesa, che non riesce a far valere la forza del suo mercato unico.