La Siria riemerge sulla scena globale: con le sanzioni revocate prima dall’Ue e ora dagli Stati Uniti, si ridefiniscono nuovi equilibri mediorientali. Dinamiche in cui Roma vede uno spazio per guidare la ricostruzione siriana e fungere da ponte diplomatico verso l’Europa, sostenuta dalla sua presenza duratura sul terreno
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato lunedì un ordine esecutivo per revocare gran parte delle sanzioni economiche statunitensi contro la Siria, segnando un cambio di rotta radicale nella politica americana verso il Paese e un’altra scossa di assestamento sul futuro del Medio Oriente. L’annuncio è arrivato a seguito del primo colloquio diretto con il nuovo presidente siriano, Ahmad al Shaara, che c’è stato poche settimane fa, facilitato dai sauditi in occasione della visita di Trump nella regione.
Cosa sceglie Washington
L’ordine esecutivo ha l’obiettivo di “porre fine all’isolamento del Paese dal sistema finanziario internazionale, creando le condizioni per il commercio globale e stimolando gli investimenti da parte dei suoi vicini nella regione, così come dagli Stati Uniti”, ha dichiarato ai giornalisti Brad Smith, sottosegretario ad interim del Tesoro per l’intelligence finanziaria e la lotta al terrorismo, durante una conferenza telefonica con cui ha anticipato le misure dell’amministrazione. Secondo il Tesoro, il governo siriano deve continuare a compiere passi concreti per costruire uno stato stabile, in pace con se stesso e con i suoi vicini. Ma la revoca delle sanzioni contribuirà a collegare l’economia siriana al commercio globale e a ricostruirne le infrastrutture
Le misure annunciate lunedì non revocano le sanzioni imposte all’ex presidente Bashar al-Assad, ai suoi più stretti collaboratori, ai familiari e ai funzionari ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani, traffico di droga o coinvolgimento nel programma di armi chimiche della Siria. Il presidente Trump vuole che la Siria abbia successo, “ma non a scapito degli interessi degli Stati Uniti”, fa sapere la Casa Bianca nella cartella di background della decisione. Trump chiede anche che la Siria assuma il controllo dei centri di detenzione dello Stato islamico, che ospitano circa 50.000 detenuti tra combattenti, donne e bambini, al fine di migliorare la sicurezza regionale. L’amministrazione mette in chiaro che resta la possibilità di reintrodurre le sanzioni qualora venga stabilito che le condizioni per la revoca non sono più rispettate. Ma per ora il processo è in corso e gli Stati Uniti dovrebbero anche rivedere la designazione della Siria come Stato sponsor del terrorismo.
Anche l’Ue allenta la pressione: “È la cosa giusta da fare”
La decisione statunitense segue la revoca delle sanzioni economiche da parte dell’Unione europea, formalizzata il 28 maggio. Il Consiglio europeo ha eliminato tutte le misure restrittive a eccezione di quelle legate alla sicurezza, sostenendo che “è il momento giusto per supportare la transizione politica e la ricostruzione del Paese”. Sono state escluse 24 entità dalla blacklist, tra cui la Banca centrale della Siria e aziende attive nei settori chiave per la ripresa economica: energia, telecomunicazioni, tessile, media — tutti infiltrati dal regime assadista e collegati in vario modo alla repressione delle opposizioni che aveva portato a 11 anni guerra civile, vinta poi dai ribelli di al Sharaa. L’Alto rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, aveva parlato di “una svolta storica” a sostegno di una Siria nuova, inclusiva e pacifica, ribadendo il sostegno dell’Ue a una transizione che rimanga ancorata alla responsabilità per i crimini del passato e alla stabilizzazione interna.
Roma in prima linea: “Vogliamo essere ponte tra Siria e Unione europea”
In questo contesto, anche l’Italia ha rivendicato un ruolo attivo nel processo di transizione siriana. Il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, in visita a Damasco a gennaio, ha incontrato il presidente al Shaara e i vertici del nuovo governo, affermando che “l’Italia è pronta a fare la sua parte per favorire il processo di riforme in Siria”. “Vogliamo esser vicini al popolo siriano e sostenerlo in tutti i settori”, ha dichiarato Tajani, specificando che Roma punta a rilanciare la cooperazione economica in settori cruciali e a proporsi come “ponte” tra la nuova Siria e l’Ue. L’Italia è attualmente l’unico Paese del G7 ad avere un’ambasciata operativa a Damasco, guidata dall’ambasciatore Stefano Ravagnan, che nei giorni scorsi è stato ricevuto da diversi ministri dell’amministrazione siriana. Roma evidenzia l’importanza di un processo politico inclusivo e del riconoscimento del ruolo delle comunità cristiane, e ribadisce l’impegno italiano nella lotta ai trafficanti di esseri umani e di droga, in coordinamento con le autorità siriane.
Accordi di Abramo e dossier Golan: l’interesse strategico di Israele
Sul fronte diplomatico, la riapertura della Siria alla Comunità internazionale — che la mossa di Trump ha definitivamente sancito — sembra passare anche per un possibile ingresso del Paese negli Accordi di Abramo. L’argomento è stato discusso anche nell’incontro tra l’americano e al Shaara. L’inviato speciale degli Stati Uniti per le negoziazioni, il factotum Steve Witkoff, ha confermato che l’ampliamento degli Accordi è una priorità della Casa Bianca, anticipando “grandi annunci a breve”. Secondo fonti diplomatiche, Damasco potrebbe riconoscere la sovranità israeliana su parte delle Alture del Golan, occupate nel 1967 e annesse de facto da Israele nel 1981. Per Israele, la formalizzazione di questo status – già riconosciuto da Trump nel 2019 – rappresenterebbe un successo strategico, in cambio del quale la Siria otterrebbe accesso a investimenti, aperture commerciali e supporto alla ricostruzione.
La questione del Golan è meta-simbolica. Non solo per la storia in sé, ma anche perché Ahmad al Sharaa aveva scelto come nome de guerre “Mohammed al Golani”, ricordando la sua discendenza e soprattutto individuando in quelle un simbolo ideologico di come la sua lotta — da leader qaedista, capo della più forte formazione ribelle in Siria — era segnata da principi chiari, classici, anti-occidentali e anti-sionisti (se non antisemiti). Ora siamo davanti a un nuovo corso, quel combattente ha tolto la mimetica e la cintura esplosiva, e indossa il completo istituzionale e potrebbe portare il paese di cui è ruler a una normalizzazione pragmatica con Israele.
Ma il contesto non è privo di rischi. Il quadro interno siriano non è compatto, formazioni parte del sistema di gruppi combattenti che ha vinto la guerra civile sono state recentemente protagoniste di azioni settarie violente. Non solo: nelle ultime settimane, al Sharaa è sopravvissuto a un tentativo di attentato a Daraa e gruppi jihadisti legati allo Stato islamico hanno organizzato attacchi a Damasco. L’Is — capace di strumentalizzare le divisioni a proprio vantaggio — contesta da sempre ai ribelli libici di essere poco concentrati nella lotta generale e accontentarsi di successi locali, per i quali scenderebbero a patti anche con i nemici — che nella specifico sono sia Israele che gli Usa, sia i potenti Stati sunniti del Golfo che il regime iraniano, tutti attori con cui Damasco deve parlare per recuperare spazio internazionale.