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Sul caso Almasri la temperatura salirà, e non per l’effetto serra. Scrive Arditti

La decisione del Tribunale dei ministri, archiviazione per la premier e richiesta di autorizzazione a procedere per Piantedosi, Nordio e Mantovano, appare fragile nel merito, perché contraddice la logica di un governo che opera in modo coordinato. Separare Meloni dai suoi ministri è un’ipotesi che non regge alla prova dei fatti politici. Uno scontro, quello tra magistrati ed esecutivo, che non si esaurirà con il caso Almasri e che continuerà a segnare il dibattito pubblico italiano

Il Tribunale dei ministri ha emesso una pronuncia destinata a far discutere: archiviazione per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma richiesta di autorizzazione a procedere per i ministri Matteo Piantedosi (Interno), Carlo Nordio (Giustizia) e il sottosegretario Alfredo Mantovano nel caso Almasri. Una decisione che, nel merito, appare difficilmente spiegabile e che solleva interrogativi sia giuridici sia politici, mettendo in luce un paradosso: come si può separare la responsabilità dei ministri da quella del capo del governo su una vicenda tanto delicata? E, soprattutto, perché questa vicenda sembra confermare che l’unico avversario temibile per l’esecutivo sia una parte della magistratura?

Il caso Almasri ruota attorno al rimpatrio, su un volo di Stato, del generale libico accusato di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale. La procura di Roma, su denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti, ha ipotizzato i reati di favoreggiamento e peculato per Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano, con l’aggiunta di omissione d’atti d’ufficio per Nordio. Il Tribunale dei ministri, dopo sei mesi di indagini – ben oltre i tre previsti dalla legge, come ha sottolineato la stessa Meloni – ha deciso di scagionare la premier, sostenendo che non ci siano prove di un suo coinvolgimento attivo nelle decisioni operative. Secondo i giudici, pur essendo stata “sicuramente informata” (come dichiarato dal prefetto Caravelli, direttore dell’Aise), non emergono dettagli sulla portata della sua condivisione delle scelte prese, né un suo ruolo nel “rafforzare il programma criminoso”. Per questo, la sua posizione è stata archiviata.

Ma qui sorge il primo nodo, che Meloni stessa ha definito “palesemente assurdo”. È davvero credibile che due ministri di peso come Piantedosi e Nordio, insieme a Mantovano, figura di fiducia della premier con delega ai servizi segreti, abbiano agito in autonomia su una vicenda di tale gravità? La tesi del Tribunale sembra scontrarsi con la realtà politica e operativa di un governo che la stessa Meloni rivendica come “coeso” sotto la sua guida. In un esecutivo strutturato come quello attuale, dove ogni decisione di rilievo è coordinata da Palazzo Chigi, immaginare che tre figure chiave abbiano operato senza il consenso della presidente del Consiglio è, per usare le sue parole, “illogico e irrealistico”.

La premier, nel suo post sui social del 4 agosto 2025, non ha esitato a prendere le difese dei suoi ministri, sottolineando che “ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata”. Questa dichiarazione non è solo un atto di solidarietà politica, ma una chiara assunzione di responsabilità collettiva. Meloni, a differenza di predecessori come Giuseppe Conte, che nel caso Open Arms prese le distanze da Matteo Salvini, ha scelto di non scaricare i suoi collaboratori, ribadendo che il governo agisce come un unico blocco. Se i ministri hanno sbagliato, allora anche lei, come capo, dovrebbe essere chiamata a risponderne. Separare la sua posizione da quella dei suoi collaboratori appare dunque un esercizio giuridico che stride con la prassi politica.

La decisione del Tribunale, in questo senso, sembra voler colpire selettivamente, isolando la premier per ragioni che potrebbero essere più politiche che giuridiche. Non è un mistero che il caso Almasri abbia suscitato polemiche, anche internazionali, per il presunto favoreggiamento di un criminale di guerra. Tuttavia, la scelta di archiviare Meloni mentre si chiede il processo per i suoi ministri rischia di alimentare il sospetto di una giustizia che, in alcune sue componenti, agisce con intenti non solo giudiziari.

Ed eccoci al secondo aspetto, forse ancora più significativo: la vicenda Almasri mette a nudo la tensione tra il governo e una parte della magistratura, percepita come l’unico vero avversario capace di mettere in difficoltà l’esecutivo. Non si tratta di un conflitto nuovo, ma di un tema che si ripropone ciclicamente nella storia italiana. La magistratura, con il suo potere di indagine e giudizio, può influenzare il corso politico, soprattutto quando si occupa di reati ministeriali. La richiesta di autorizzazione a procedere, che ora passerà al vaglio del Parlamento, è un passaggio delicatissimo: la maggioranza, compatta sotto la guida di Meloni, potrebbe facilmente bloccare il processo, ma il danno politico è già fatto.

Le fughe di notizie, lamentate dalla premier, e i tempi dilatati delle indagini – sei mesi invece di tre – rafforzano l’idea che parte della magistratura operi con un’agenda che va oltre il semplice accertamento dei fatti. Non si tratta di negare il ruolo di garanzia dei giudici, ma di chiedersi se, in casi come questo, l’azione giudiziaria non rischi di trasformarsi in uno strumento di pressione politica. Le opposizioni, da Angelo Bonelli a Riccardo Magi, hanno già cavalcato la vicenda, parlando di “pagina nera” per lo Stato di diritto e chiedendo dimissioni. Ma il vero scontro sembra essere tra il governo e un sistema giudiziario che, in alcune sue frange, appare deciso a sfidare l’esecutivo sul terreno della legittimità delle sue scelte.

Meloni ha promesso di presentarsi in Parlamento accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano, pronta a difendere l’operato del governo, che, a suo dire, ha agito “con la sola bussola della sicurezza degli italiani”. Questa linea, che rivendica una decisione politica anche a costo di polemiche, è coerente con il suo stile di leadership. Ma il caso Almasri non si chiuderà facilmente: il voto parlamentare sull’autorizzazione a procedere sarà un banco di prova, non solo per la solidità della maggioranza, ma per la capacità del governo di resistere a quella che Meloni percepisce come una “giustizia a orologeria”.

In conclusione, la decisione del Tribunale dei ministri appare fragile nel merito, perché contraddice la logica di un governo che opera in modo coordinato. Separare Meloni dai suoi ministri è un’ipotesi che non regge alla prova dei fatti politici. Ma, soprattutto, questa vicenda rende evidente che la magistratura, o almeno una sua parte, rimane l’unico attore capace di mettere in discussione il potere dell’esecutivo. Uno scontro che non si esaurirà con il caso Almasri e che continuerà a segnare il dibattito pubblico italiano.


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