Se il biglietto verde si dovesse rivalutare, l’onere del riequilibrio cadrebbe sui consumatori europei, costretti ad acquistare i prodotti americani ad un prezzo maggiore. Mentre il valore del dazio, sul mercato interno americano, sarebbe ridotto dall’aggio del maggior valore del dollaro. Il contrario avverrebbe nel caso opposto, con in più la conseguenza di dare origine ad un’ulteriore spinta inflazionistica, rispetto a quelle già latenti nel mercato americano. L’analisi di Gianfranco Polillo
Dopo il grande gelo dei mesi precedenti, quando JD Vance, il vice presidente degli Stati Uniti, accusava gli europei di essere dei “parassiti” e Donald Trump minacciava dazi del 50%, un momento di relativa intesa. Anzi una doppia intesa: se si considera l’incontro alla Casa Bianca dopo il vertice di Anchorage, in cui sembrava che il presidente degli Stati Uniti avesse ammainato la bandiera a favore di Vladimir Putin. Durante l’incontro con Zelensky e la delegazione europea, invece, la situazione era apparsa meno compromessa. I fili, in qualche modo erano stati riannodati, in attesa della risposta da parte di Mosca, che invece non è pervenuta. Né si sa quando arriverà.
Sul fronte commerciale, invece, una leggera schiarita: dazi al 15%. Una decisione che perfeziona l’accordo di qualche settimana fa, quando Ursula von der Leyen era volata in Scozia, per un tête-à-tête con Donald Trump, nella speranza di salvare il salvabile. Allora l’accordo, di larga massima, sembrava pasticciato. Tante lacune ed incertezze nella declaratoria dei vari prodotti. E anche qualche speranza per non pagare – è proprio il caso di dirlo – dazio. Oggi, invece, il quadro è più chiaro.
Il joint statement tra gli Stati Uniti e l’Unione europea si articola in 19 punti. Ai primi posti, ovviamente, il problema tariffario, con la promessa di garantire all’alleato atlantico un “accesso preferenziale di mercato per un vasto elenco di prodotti ittici ed agricoli”. Prodotti come frutta a guscio, latticini, frutta e verdura fresca e trasformata, alimenti trasformati, semi, olio di soia, carne di maiale e di bisonte (sic!). Si dovranno inoltre rivedere le regole sulle importazioni di aragosta.
La regola generale sarà data dall’applicazione della tariffa relativa alla “Nazione più favorita” (NPF) o, in alternativa, un’aliquota tariffaria del 15%, a partire dal 1 settembre 2025. Tariffa che sarà applicata ai seguenti prodotti: risorse naturali non disponibili (incluso il sughero), aeromobili e relative parti, farmaci generici e precursori chimici (elementi necessari per reazioni chimiche). Elenco che potrà essere esteso per includere altri prodotti.
Per quanto riguarda, invece, i prodotti farmaceutici, i semiconduttori ed il legname, l’aliquota del 15% scatterà solo nel momento in cui la Ue avrà presentato la proposta legislativa necessaria per favorire le importazioni americane, secondo il dettaglio fornito in precedenza. Stessa procedura, infine, per quanto riguarda l’automotive o i suoi singoli componenti. Più incerta, invece, la sorte dell’acciaio, dell’alluminio e dei suoi derivati. I dazi rimangono al 50%. Ma Stati Uniti e Ue si impegnano “a proteggere i rispettivi mercati nazionali dalla sovraccapacità, garantendo al contempo la sicurezza delle catene di approvvigionamento”.
Esistono poi una serie di impegni, di cui è difficile valutare, il loro grado di realismo, per il piglio di regista che sembra animarli. Si tratta dell’acquisto di gas naturale liquefatto, petrolio e prodotti energetici nucleari, per un importo pari a 750 miliardi di dollari, entro il 2028. E dell’acquisto di chip di intelligenza artificiale per un valore pari ad almeno 40 miliardi di dollari. Inoltre le aziende europee dovranno investire negli Stati Uniti 600 miliardi di dollari nei “settori strategici”, sempre entro il 2028. Come farà l’Ue ad imporre questi obblighi ad aziende private rimane il grande interrogativo.
Ovviamente l’accordo non farà bene all’economia europea. Poteva, tuttavia, andare peggio e allora, come sottolineato dal comunicato della presidenza del Consiglio, meglio far buon viso al cattivo gioco. L’accordo fornisce, infatti, “finalmente al mondo imprenditoriale” dopo tanti patemi d’animo “un quadro chiaro del nuovo contesto delle relazioni commerciali transatlantiche”, consentendo loro un minimo di programmazione. Al tempo stesso, come precisato, dal commissario Ue al commercio Maros Sefcovic, in conferenza stampa, il tema del Digital Market Act e del Digital Service Act è stato tenuto fuori dal negoziato.
Chi saranno i vinti e i vincitori? Al momento è impossibile stabilirlo. Il dazio del 15% incorpora quello precedente, ch’era in media pari al 4,9%. L’aggravio è quindi del 10,1%. A questa soglia va quindi sommata la svalutazione del dollaro, sempre che in futuro sia questa la tendenza prevalente. Dalla data dell’insediamento (20 gennaio) il dollaro ha subito una svalutazione, in media, dell’8,7% (11,7% svalutazione media del periodo – il 3% rapporto euro/dollaro il 20 gennaio). Ne deriva che l’aggravio complessivo sulle esportazioni europee sarà pari a circa il 19%. Sarà sempre così? No: dipenderà dal valore del dollaro rispetto all’euro. Per avere un parametro di riferimento, si consideri tuttavia che dalla nascita dell’euro, la svalutazione media del dollaro è stata pari all’incirca al 15%. Differenze, quindi, almeno al momento non sembrano dirompenti.
Il cambio euro/dollari avrà quindi un significato cruciale. Se il biglietto verde si dovesse rivalutare, allora l’onere del riequilibrio cadrebbe sui consumatori europei, costretti ad acquistare i prodotti americani ad un prezzo maggiore (si pensi solo all’energia). Mentre il valore del dazio, sul mercato interno americano, sarebbe ridotto dall’aggio del maggior valore del dollaro. Il contrario avverrebbe nel caso opposto, con in più la conseguenza di dare origine ad un’ulteriore spinta inflazionistica, rispetto a quelle già latenti nel mercato americano.
Il tutto, ulteriormente complicato, dalle dinamiche del quadro macroeconomico e da quello finanziario. Si veda il durissimo scontro tra Donald Trump e Jerome Powell, governatore della Fed. Si tratta allora di stare solo a vedere. Non solo per analizzare come evolverà la congiuntura, ma per capire ciò che potrebbe accadere nelle elezioni di midterm, dove, a quanto sembra (stando almeno ai sondaggi ed alle manovre tutte politiche sulla ridefinizione di alcuni collegi elettorali) l’inquilino della Casa Bianca potrebbe rischiare se non lo sfratto, almeno un aumento del canone d’affitto.