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Come la destra Usa ha arruolato Marx contro il progressismo. La versione di Di Gregorio

La destra conservatrice aspira a farsi produttrice di pensiero, di narrazioni, di cultura di massa. Si assiste a un cambio di passo decisivo: dalla reazione all’azione, dalla resistenza al progetto. Non solo “contro” la cultura dominante, ma “per” una nuova egemonia. Mentre la sinistra si affida all’inerzia di un’egemonia passata, sottovalutando la capacità della controparte di appropriarsi dei suoi stessi strumenti teorici. L’analisi di Luigi Di Gregorio, professore di Scienza politica presso l’Università della Tuscia di Viterbo

Nel panorama culturale e politico statunitense, un paradosso sempre più evidente coinvolge la figura di Antonio Gramsci. Pensatore marxista, teorico dell’egemonia culturale e icona della sinistra del Novecento, Gramsci sta conoscendo una singolare riscoperta da parte della nuova destra americana. L’artefice di questa operazione è in particolare Christopher Rufo, attivista e stratega culturale, noto per aver dato avvio a una campagna sistematica contro la cosiddetta cultura woke e contro l’influenza delle teorie critiche sul razzismo e sul genere all’interno di scuole e università.

In un contesto segnato dalla polarizzazione e da una crescente attenzione ai temi dell’identità e dell’istruzione, Rufo propone di adottare una versione rovesciata della strategia gramsciana: una lunga marcia nelle istituzioni educative e culturali, ma con finalità conservatrici. L’obiettivo è la costruzione di una contro-egemonia culturale. Non si tratta semplicemente di vincere elezioni o di ottenere potere politico, ma di plasmare nel lungo periodo il senso comune, i riferimenti simbolici, l’immaginario e le cornici attraverso cui le persone interpretano la realtà. È, in sostanza, la stessa intuizione su cui Gramsci fondava la sua critica al determinismo economico del marxismo ortodosso: le strutture non cambiano senza una trasformazione precedente delle sovrastrutture.

Solo che, nel caso statunitense – e in generale nell’occidente contemporaneo – l’egemonia da contrastare non è quella della borghesia, ma quella delle élite liberal, accusate di aver colonizzato l’università, i media e il sistema educativo, con una visione ideologica incentrata su multiculturalismo, diritti delle minoranze e decostruzione delle narrative storiche tradizionali. In questo quadro si inserisce il progetto Muga (Make university great again) che punta a riformare il sistema universitario statunitense sulla base di valori conservatori. La logica è quella di una vera e propria “guerra culturale”, che Rufo conduce con lucidità strategica, sfruttando media alternativi, reti militanti, think tank e appoggi politici all’interno del Partito repubblicano. La sua nomina nel board del New college of Florida, trasformato in laboratorio della nuova reconquista conservatrice, è solo un tassello di un disegno più ampio.

L’elemento gramsciano emerge dalla consapevolezza che la politica senza un radicamento culturale si poggia su un consenso effimero. Bisogna conquistare la capacità di definire ciò che è “normale”, ciò che è “vero”, ciò che è “buono”. In tal senso, Rufo rovescia la lezione gramsciana. Ne conserva l’impianto teorico, cambiandone il segno ideologico. Questo processo non è isolato. Anche in Europa si assiste a tentativi analoghi di contro-egemonia culturale, che prendono le mosse proprio dall’idea che un approccio puramente reattivo e difensivo possa non bastare. La tesi del cultural backlash, formulata da Norris e Inglehart in un libro di sei anni fa, aveva spiegato l’ascesa delle nuove destre conservatrici come una reazione identitaria e valoriale all’avanzata dei diritti civili e delle trasformazioni culturali promosse dalle élite progressiste.

Ma ora si assiste a un cambio di passo decisivo: dalla reazione all’azione, dalla resistenza al progetto. Non solo “contro” la cultura dominante, ma “per” una nuova egemonia, costruita attraverso istituzioni, linguaggi e rappresentazioni alternative. L’effetto può essere straniante: un autore marxista trasformato in ispiratore di una battaglia contro il progressismo. Ma di fatto è un segnale. La destra conservatrice non è soltanto un moto di popolo anti-intellettuale, ma aspira a farsi produttrice di pensiero, di narrazioni, di cultura di massa. Questo attivismo culturale si propone, quindi, come progetto di lungo periodo. Mentre la sinistra sembra ancora affidarsi all’inerzia di un’egemonia passata, sottovalutando la capacità della controparte di appropriarsi dei suoi stessi strumenti teorici. Il caso Rufo-Gramsci rappresenta dunque molto più di una provocazione intellettuale.

È il segnale di una trasformazione in atto nella destra contemporanea, sempre più attenta alla metapolitica, alla formazione culturale, al controllo del sapere. La scelta di rifarsi a Gramsci non implica, ovviamente, un’adesione ai contenuti del suo pensiero, ma un riconoscimento della forza del suo metodo. In una fase storica in cui il conflitto si gioca tanto nei palazzi quanto nelle aule universitarie, nelle serie televisive e nei talk show, il pensiero gramsciano si rivela utile, forse oggi più che mai. Non solo perché la sua teoria dell’egemonia culturale si dimostra lungimirante, ma perché viviamo in un’epoca in cui virtuality is our reality, come scriveva Manuel Castells. Un’epoca in cui il simbolico non è solo rappresentazione del reale ma spesso lo precede, lo plasma, lo sostituisce. La società dello spettacolo, dell’immagine, dell’economia dell’attenzione è, nel profondo, il regno dell’egemonia culturale.

Formiche 214


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