L’Europa è scontenta dell’accordo sui dazi. Le critiche sono rivolte alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Molti leader dimenticano che quello era l’unico patto possibile frutto di mediazione tra 27 Stati del Vecchio Continente senza la dote di super potenza. Da domani l’Europa deve riscattarsi e capire quale sarà il suo approdo in un quadro globale completamente mutato. L’opinione di Maurizio Guandalini
È ingeneroso continuare ad attaccare Ursula von der Leyen per il modo in cui ha condotto le trattative sui dazi. La presidente della Commissione europea si è fatta carico delle anomalie del momento, l’indirizzo affidatogli dai capi di Stato e di governo dell’Europa di mercanteggiare con un “americano in Scozia” (che fine hanno fatto le sedi istituzionali?) che non ottempera ad alcuna alleanza o amicizia, passata e futura. Fa solo quello che ha in quella testa mutevole seguendo l’indirizzo dell’America First. Ha fatto male la von der Leyen? Oggettivamente nel cul de sac in cui si trova l’Europa non aveva molta libertà di movimento. Un gruppo di 27 Stati con esigenze diverse senza tecnologia e armi in grado di competere alla pari con gli Stati Uniti. Meglio darsi una calmata e non fare frontino. Guardare la realtà. L’Europa paga le trascuratezze e l’incompletezza di decenni. Essere in mezzo al guado. Vorrei ma non posso. Lasciando in piedi quelle burocrazie interne al Vecchio Continente che a loro volta sono altri dazi che si aggiungono a quelli esistenti e che hanno impedito di creare quel Mercato Unico Europeo pensato dal 1992 e mai realizzato a pieno nelle sue reali potenzialità.
Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina, l’assenza di un efficiente ombrello di difesa, e i ritardi nascosti sotto la copertura sicura degli Stati Uniti, poi i costi dell’energia (che hanno spinto in surplace l’economia tedesca) e quindi la partita dei dazi sono il sintomo di un’Europa che è giunta a un bivio. Chiedersi se è in grado di cambiare velocemente resettando e quindi ripartendo anche con un gruppo di nazioni guida, oppure valutare l’impraticabilità di proseguire trascinandosi dietro un moloch ingombrante e inattivo scegliendo di realizzare quel minimo sindacale che è un’efficiente area di libero scambio abbandonando così obiettivi troppo ambiziosi.
Si sa, l’operazione di mettere insieme 27 Stati sovrani, ciascuno con le proprie esigenze, diverse profondamente, spesso, da una all’altra nazione, è un progetto che ha dell’impossibile. La guerra dei dazi ha rilevato questo.
Ora si tratta di risolvere questioni urgenti. Che attendono imprenditori e consumatori. I dazi, appunto. E il miglior modo non è quello di criticare von der Leyen con l’intento di iniziare una guerra commerciale senza fine. Operativamente c’è da tenere l’intelaiatura, lo schema, il quadro del 15% (un modo per dare certezze ai mercati) e dentro lì trattare, scrivere, giungere a ulteriori accordi che saranno per forza di cose dei singoli stati dell’Unione verso gli Stati Uniti. Ci sono già in queste ore interpretazioni diverse della stretta di mano tra von der Leyen e Trump. Nei prossimi giorni si andrà a frizioni ancora più a tinte forti come accade quando gli accordi sono ancora da scrivere.
Non tanto a margine c’è il controverso capitolo energia. L’Europa si impegna ad acquistare in tre anni 700 miliardi di dollari di gas liquefatto dagli Stati Uniti a prezzi tre volte superiori rispetto i competitors. C’è molto che non ci torna. Dopo i dazi e la svalutazione del dollaro questa sarebbe una mazzata di proporzioni devastanti per famiglie e imprese. È qui che si deve inserire la nuova capacità di movimento dell’Europa, frenata di molto dopo la guerra in Ucraina. Riaprire ad esempio al mercato del gas russo. Capisco essere una ipotesi che ora può apparire inopportuna (infatti dovrebbe rientrare in un eventuale accordo di pace Russia-Ucraina). Ma molti imprenditori e istituti di ricerca ritengono sia una strada di libero mercato da percorrere al più presto, per abbassare gli alti costi di produzione e favorire la ripresa delle economie, in particolare quella tedesca e italiana.
Anche la politica delle sanzioni dell’Ue che ha voluto dire chiusure ed emarginazioni verso il mondo globale a scapito, in modo diverso, da Paese a Paese, del portafogli di famiglie e imprese, va superata. L’Europa ha una carta straordinaria. Quella di aprirsi. Riprendere una politica commerciale e d’investimenti a estuario. Con la consapevolezza della gradualità. Del tempo necessario. In un quadro generale molto instabile. Non c’è organismo internazionale che fa da supplenza alla Wto (Organizzazione mondiale del Commercio), ormai svuotata di funzioni soprattutto per colpa dell’immobilismo degli Stati Uniti, era Biden, che ne hanno bloccato le riforme necessarie. Sono lontani i tempi del segretariato affidato alla sapienza dell’ambasciatore Renato Ruggiero, 1995-1999, che aveva aperto con intraprendenza alle relazioni globali attraverso regole scritte chiare.
Attraversato il dossier dei dazi l’Europa deve chiedersi dove andare, che fare. Cantierare uno scatto, se ce la fa. C’è l’Europa del dossier di Mario Draghi (perché a suo tempo non gli fu affidata la presidenza del Consiglio d’Europa?) scritto in modo dettagliato, pronto all’uso. Come procedere? Consiglio d’Europa e Commissione possono dare un veloce via libera? In seduta permanente si riesce sforbiciare tanta burocrazia inutile, togliere barriere e giungere rapidamente agli obiettivi? Se la strada diventa lunga e complessa si riducono le ambizioni e si procede per qualcosa di più snello ma rapido senza gangli di genere.
La Commissione, soprattutto negli ultimi anni, ha dato la sensazione di risolvere i problemi più annosi distribuendo denaro o mettendo regole sanzionatorie. L’ha fatto con l’Ucraina, con il riarmo, prima con il Pnrr, ora con i sostegni in programma per chi è più penalizzato dai dazi, infine con il green deal. Ma è una politica del ragioniere capo, senza note incidenti, senza tratti di futuro incoraggiante. Questo manca. Investimenti in tecnologia, intelligenza artificiale, in quei settori che danno un ritorno. Il gap da colmare è visibile. Si tratta di non vivacchiare agitando lo stanco vessillo dell’Europa di Ventotene che copre le sterminate mancanze di questi anni.
La vulgata corrente vuole che l’imprevedibile e onnipresente Trump abbia svegliato l’Europa chiamandola alle proprie responsabilità. Se è vero, quest’alert è bene prenderlo dal verso giusto, muovendosi continuamente senza vincoli, sfidando gli Stati Uniti e le altre potenze sul terreno della competizione e della rapida azione decisionale.