Da Rimini giunge un messaggio duplice e coerente con la sua tradizione: guardare al futuro con la profondità della fede e con la concretezza della ragione, tenendo insieme la dimensione europea e quella nazionale. Una sfida che chiede responsabilità, perché da essa dipenderà se l’Italia saprà alzare lo sguardo o se tornerà a rinchiudersi nei suoi piccoli conflitti. Il commento di Raffaele Bonanni
Si è concluso il Meeting di Rimini, che si conferma più che mai come il luogo principe del dibattito pubblico in Italia. Non un’arena di posizioni gridate o di accuse pretestuose, ma un appuntamento che richiede discussioni di merito, capace di affrontare il caleidoscopio dei temi e delle sue molteplici sfaccettature. Rimane fedele alla sua vocazione originaria: declinare e approfondire il cristianesimo in rapporto alla speranza dell’uomo, come viatico per il futuro, e insieme esaltare la potenza del genio umano nel custodire e proseguire l’opera del creato. In questo senso, il Meeting è palestra di fede e corpo intermedio tra i più attivi e autorevoli del Paese, che attraverso il principio di sussidiarietà indica un criterio concreto per partecipare con responsabilità al buon andamento della vita civile.
In questa edizione, il confronto si è arricchito della presenza di due figure di primo piano, espressione di prospettive complementari: da un lato Mario Draghi, dall’altro Giorgia Meloni. Il primo ha posto con lucidità la questione europea, denunciando i rischi di irrilevanza per un’Unione ancora frammentata e incapace di affrontare la morsa delle grandi potenze globali. L’accaparramento di materie prime ed energia, la riscrittura dei trattati commerciali, la pressione di autocrazie aggressive rappresentano minacce tangibili. Per Draghi, la vera sovranità non può più essere quella nazionale, fragile e isolata, ma soltanto quella di una dimensione federale continentale, l’unica capace di trattare da pari a pari sullo scacchiere mondiale. Una sfida che i governi europei continuano a sottovalutare, prigionieri di un egoismo miope, divisi tra sovranismi retorici e idealismi consolatori, ciechi di fronte a un mondo che non ammette ingenuità.
A chiudere i lavori, il discorso del presidente del Consiglio, che ha saputo toccare ogni tema sensibile per il popolo di Comunione e Liberazione. Applaudita e coinvolgente, ha parlato di lavoro, giustizia, famiglia, attività produttive, insistendo sulla centralità del ceto medio. Ridare forza a quella classe sociale, tradizionalmente motore di progresso e stabilità, diventa una priorità non solo economica, ma anche culturale e politica. Il messaggio ha avuto il tono della concretezza e della vicinanza, pur lasciando aperta la curiosità di comprendere meglio nei prossimi giorni quali misure saranno messe in campo.
Non è mancato un passaggio sui temi istituzionali: premierato e autonomia differenziata. Questioni che segnalano tensioni interne alla maggioranza e che rischiano di riportare la politica italiana nel suo eterno catino domestico, distogliendo energie da ciò che più conta. Il paradosso è evidente: mentre il Paese avrebbe bisogno di consolidare il ruolo europeo e internazionale conquistato negli ultimi mesi, riaffiorano dibattiti che rischiano di restringere l’orizzonte e di indebolire la guida dell’esecutivo proprio sul terreno globale, quello in cui l’Italia oggi appare più necessaria e ascoltata.
Da Rimini, dunque, giunge un messaggio duplice e coerente con la sua tradizione: guardare al futuro con la profondità della fede e con la concretezza della ragione, tenendo insieme la dimensione europea e quella nazionale. Una sfida che chiede responsabilità, perché da essa dipenderà se l’Italia saprà alzare lo sguardo o se tornerà a rinchiudersi nei suoi piccoli conflitti.