Se Trump sarà visto come una “forza politica irresistibile”, allora potrà favorire la stabilizzazione in un’area strategica in cui gli Stati Uniti consolideranno la loro influenza, erodendo quella dei rivali
La Casa Bianca si prepara a ospitare domani una cerimonia che Donald Trump definisce un “Vertice storico per la pace”. Al fianco del leader azero Ilham Aliyev e del primo ministro armeno Nikol Pashinyan, il presidente statunitense firmerà un’intesa destinata — nelle intenzioni — a chiudere una delle dispute territoriali più lunghe e radicate del pianeta.
Si tratta di un traguardo che Trump presenta come uno dei maggiori successi di politica estera della sua presidenza, parte del tentativo di consolidare l’immagine di “uomo di pace” che lo accompagnerà nella storia (magari anche attraverso un Premio Nobel). Il negoziato arriva dopo aver già promosso accordi di normalizzazione tra Rwanda e Repubblica Democratica del Congo, India e Pakistan (sebbene New Delhi smentisca), e più di recente tra Cambogia e Thailandia. Sullo sfondo, però, restano irrisolte le crisi in Ucraina e a Gaza, dove la diplomazia americana non è ancora riuscita a imprimere svolte decisive.
Il conflitto armeno-azero ha origini negli anni ’80 e ha conosciuto diverse ondate di violenza, l’ultima nel 2023, quando Baku ha preso il controllo del Nagorno-Karabakh. L’intesa mediata da Washington prevede una clausola economica di forte impatto: l’Armenia consentirà il passaggio nei 43,5 chilometri del Corridoio di Zangezur — battezzato “Trump Route for International Peace and Prosperity” — che collegherà il territorio principale dell’Azerbaigian con l’exclave di Nakhichevan, al confine turco.
Il tracciato, che sarà sviluppato da imprese statunitensi, permetterà di spostare merci e persone tra Turchia e Azerbaigian, e da lì verso l’Asia centrale, bypassando sia l’Iran sia la Russia. Una svolta logistica di peso, perché l’attuale frontiera tra Armenia e Azerbaigian è chiusa e fortificata. Ankara ha già espresso pieno sostegno al progetto, mentre Teheran lo osteggia apertamente e Mosca lo ha criticato, temendo un indebolimento della propria influenza nel Caucaso.
Il negoziato ha preso forma in primavera, quando l’inviato speciale Steve Witkoff — che sta guidando questi e tutti i negoziati di pace e stabilità su cui Washington si è lanciato — ha visitato a sorpresa a Baku, su sollecitazione del governo del Qatar, arrivando da Mosca. A quel punto, Witkoff ha incaricato Aryeh Lightstone, già stretto collaboratore di David Friedman nell’ambasciata Usa a Israele e vicino a Jared Kushner, di guidare il processo. Aryeh Lightstone ha effettuato cinque missioni nell’area, lavorando in silenzio con le due delegazioni.
Secondo fonti americane, la chiave per convincere Nikol Pashinyan è stata la prospettiva di rafforzare i rapporti con Washington e ottenere un “paracadute strategico” contro eventuali future pressioni militari di Baku. La stessa fonte sottolinea che l’approccio è stato “tipicamente trumpiano”: spostare la questione dal piano della rivalità etnica a quello delle opportunità commerciali.
Resta comunque complesso il quadro politico interno: per molti osservatori, un accordo duraturo richiederà anche una revisione della Costituzione armena per eliminare ogni riferimento al Nagorno-Karabakh come territorio nazionale. Inoltre, la bozza non affronta ancora nodi umanitari e culturali cruciali, come la sorte dei circa 120.000 armeni sfollati nel 2023, la liberazione dei prigionieri di guerra o la protezione dei siti culturali armeni.
Se l’intesa dovesse reggere, gli Stati Uniti potrebbero rafforzare in modo decisivo la loro posizione in un’area di cerniera tra Europa e Medio Oriente, riducendo la capacità di influenza di Russia, Iran e Cina. Questo accordo crea un percorso irreversibile verso la normalizzazione dei rapporti sotto l’egida dell’amministrazione Trump, spiegano le fonti americane, aggiungendo che all’inizio sarà una pace tra governi, ma l’obiettivo è trasformarla col tempo in una pace calda tra i popoli.
Rimane aperta la questione dell’eventuale ripristino degli aiuti militari statunitensi all’Azerbaigian, sospesi dall’amministrazione Biden quando Baku si era avvicinata a Mosca e Aliyev aveva ventilato nuove operazioni militari contro l’Armenia. Da ricordare che in passato, il sostegno americano aveva raggiunto i 100 milioni di dollari in equipaggiamenti e finanziamenti.
Oggi l’Azerbaigian non avrebbe bisogno sul piano pratico di quel sostegno, forte della collaborazione militare con Israele. Ma un parziale ripristino degli aiuti avrebbe un significato politico, e potrebbe comunque rappresentare “la ciliegina sulla torta” per rendere più appetibile l’accordo a Baku.
Per mantenere l’intesa, “Trump deve essere percepito in Armenia come una forza politica irresistibile”, osserva Matthew Bryza, ex ambasciatore Usa a Baku e già negoziatore sul conflitto. Sarebbe un passo storico verso l’integrazione di una regione strategica, che consoliderebbe la presenza statunitense nel Caucaso — cruciale per la Belt & Road cinese e sempre più sotto le attenzioni internazionali per rotte commerciali e materie prime.
Come ricorda Mike Carpenter, ex ambasciatore Usa presso l’Osce e già direttore per l’Europa nel Consiglio di Sicurezza Nazionale sotto l’amministrazione Biden, “l’accordo rafforzerebbe indubbiamente il peso degli Stati Uniti. Ma, soprattutto, ridurrebbe il ruolo di attori esterni che in questa regione, e non solo, esercitano un’influenza destabilizzante, in primo luogo Iran e Russia”.