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Misurare ciò che conta. Il buffo paragone tra il Pil pro-capite italiano e britannico

Il Pil resta un indicatore fondamentale, ma sempre più inadeguato a raccontare lo stato reale di un Paese. Il benessere non coincide con la sola crescita e non si esaurisce nei conti, ma si misura anche nella capacità di esprimere sé stessi, di partecipare e di coltivare i propri sogni. L’opinione di Stefano Monti

Nei manuali di macroeconomia, quando si analizza il rapporto tra reddito e tempo libero, si studia la cosiddetta “curva a gomito”, che deve il nome proprio dalla forma molto peculiare che essa assume.

Più nel dettaglio, questa curva descrive una dinamica particolarmente interessante che, senza entrare in tecnicismi può essere riassunta in questo modo: ottenuto un livello di salario ritenuto ottimale, un aumento dei salari non porterà necessariamente ad un aumento delle ore di lavoro, ma è anzi probabile che ottenuto un salario congruo la persona piuttosto che incrementare il tempo lavoro tenda a preferire il proprio tempo libero.

Perché tale curva è così importante? Perché mostra alcuni elementi che spesso vengono posti in secondo piano quando si guarda agli aggregati macro-economici. Anche volendo restare all’interno degli schemi utilitaristici, infatti, questa curva mostra almeno due condizioni essenziali che non andrebbero mai dimenticate: la prima è il concetto strumentale del denaro; la seconda è la relatività del suo valore.

Al netto di ambizioni in ambito professionale, di status, o di tenore di vita, in una condizione di continuità c’è un limite oltre il quale le persone tenderanno a preferire il proprio tempo libero.

Una frase che, con un colpo solo, mostra quanto sia limitante l’utilizzo del Pil come sintesi dello stato di salute di un determinato Paese.

Non che tale indicatore debba essere del tutto eliminato, anzi. Ha un’utilità fondamentale che difficilmente potrà essere realmente sopperita da altri indicatori. Basti pensare soltanto alla storicità assunta, che ne consente un confronto sia a livello temporale che a livello internazionale.

È però vero che tale indicatore è nato quando le società avevano una sensibilità differente da quella attuale, con differenti livelli di redditi, con differenti catene di produzione del valore, con differenti elementi del tempo libero, e con differenti demografie.

Si pensi ad esempio alla recente notizia che ha visto il Pil pro-capite italiano superare quello britannico. Non molti l’hanno sottolineato, ma come riporta lo stesso sito della Rai, a fare la differenza oggi non è la crescita economica, simile tra i due Paesi, ma soprattutto la dinamica demografica. Mentre la popolazione britannica è in forte aumento e distribuisce la ricchezza su un numero maggiore di abitanti, in Italia il calo delle nascite fa crescere più rapidamente la ricchezza pro capite.

Questo elemento rende ancor più chiaro il concetto: se gran parte del miglioramento del Pil pro-capite è dovuto al fatto che l’Italia sta vivendo una crisi demografica, è corretto affermare che un Pil pro-capite maggiore sia un fattore necessariamente positivo?

Si tratta di piccoli esempi che non vogliono smentire accademicamente il ruolo del PIL, quanto piuttosto intessere una riflessione più ampia, legata a ciò che valga la pena davvero misurare per riconoscere quando un Paese sta migliorando le proprie condizioni.

Su questa linea, da qualche anno, sono nati tantissimi progetti, tanto a livello globale che a livello nazionale, volti a definire indicatori ulteriori rispetto al Pil. Dal Beyond Gdp dell’Unione Europea alla commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi su iniziativa francese, passando attraverso lo Human Development Index (Nazioni Unite) e il Better Life Index (Oecd), e arrivando, a livello nazionale, al Benessere Equo e Sostenibile (BES) proposto da Istat in collaborazione con il Cnel.

Attraverso gli indicatori proposti, ad esempio, è possibile notare una serie di dinamiche che meriterebbero interesse per comprendere il livello di soddisfazione delle persone, anche rispetto a dinamiche prettamente economiche come il lavoro, o come la propensione all’investimento, che diviene sempre più centrale anche nelle politiche comunitarie.

Guardando ad esempio alla sola componente di lavoro, secondo l’Istat, la percentuale di occupati sovra istruiti è passata dal 24,6% del 2008 al 27,1% del 2023. Ciò significa che quasi un terzo degli occupati si trova a svolgere mansioni che richiedono un livello di conoscenza inferiore a quello che ha nel tempo maturato.

Una condizione di questo tipo deve far riflettere, perché al netto di coloro che dopo l’università, ad esempio, hanno deciso di adottare uno stile di vita più semplice, chi lavora ad una mansione che richiede meno competenze di quelle accumulate negli anni subisce una perdita economica secca: da un lato ha una paga minore di quella cui potrebbe ambire; dall’altro ha investito anni del proprio tempo a raggiungere un livello di conoscenza e competenza che si sono rivelati poi essere “anti-economici” sotto il profilo professionale. Malgrado sia inattaccabile il principio che vuole la formazione e la cultura come elemento di crescita personale e non solo funzionale al lavoro, è chiaro che però molti di coloro che hanno conseguito una Laurea si aspettavano anche di guadagnare di più. E questa non è soltanto una dimensione economica, ma anche una dimensione personale, che incide sul proprio livello di benessere.

Così come incidono sul livello di benessere la qualità del tempo libero, e su questo è interessante notare come per le persone che hanno studiato di più sia aumentata l’insoddisfazione nei riguardi del paesaggio del luogo di vita, e come nel frattempo, la generale partecipazione culturale sia diminuita nel corso degli anni tra coloro che hanno almeno un diploma e sia invece aumentata esclusivamente tra coloro che hanno una licenza elementare – media o nessun titolo.

Sono elementi che incidono, nel momento in cui una persona ha raggiunto il livello di reddito ottimale, ed incidono perché il lavoro e il reddito, come dimostra quel grafico, per quanto possano altresì racchiudere dimensioni personali come l’autoaffermazione e lo status, non saranno mai il fine ultimo di un essere umano.

Sarebbe forse il caso di estendere sempre più la misurazione dei BES, e favorire in modo concreto il riconoscimento degli obiettivi di sviluppo che il nostro Paese è giusto percorra, e che sono sempre più legati al benessere soggettivo, alla capacità di interpretare se stessi all’interno di una comunità, alla partecipazione sociale ancor prima che politica, allo sviluppo di una conoscenza che ci consenta di interpretare il mondo secondo un punto di vista personale, alla capacità di emozionarsi, di esprimere le proprie sensazioni, di avere un sogno e avere l’opportunità di perseguirlo. Tutti elementi che, man mano che si prosegue verso un’economia legata ai servizi più che alla sussistenza, coinvolgono in modo importante le dimensioni culturali, che sono la leva attraverso la quale poter abilitare condizioni di miglioramento personale e sociale.

Certo, è importante avere i conti a posto, ma soltanto per poter crescere e per poter far ciò che ci piace senza dover rinunciare a qualcos’altro.


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