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La sfida del Ponte sullo Stretto è portare l’Italia nel futuro. La versione di Bonanni

Il vero impatto non è solo nei cantieri e nei collegamenti, ma nel segnale che l’Italia può smettere di arretrare. Un ponte come volano per logistica, turismo, industria; come argine all’emigrazione dei giovani; come pretesto virtuoso per ammodernare strade, porti, ferrovie. Un’opera che ridisegna la geografia economica e mentale del Paese. Il commento di Raffaele Bonanni

È una maledizione tutta italiana: possibile che la politica non riesca mai a condividere un progetto grande, di respiro? Il Ponte di Messina è il simbolo di questa paralisi. Collegherebbe la Sicilia al resto d’Italia, l’Italia all’Europa, e da lì fino alla Svezia, passando per il ponte che unisce Copenaghen a Malmö e per il tunnel sotto la Manica che porta in Inghilterra. Altrove si costruisce e si guarda avanti; qui si erode tempo sabotando l’idea stessa di fare.

Da decenni, i detrattori del ponte alimentano paure: terremoti, venti, mafie, costi. Paure trasformate in cemento ideologico, collante di un dissenso che non propone alternative. Perché, se davvero si voleva “prima strade e ferrovie”, dov’è questo ammodernamento? Le vie di comunicazione del Sud restano tra le più scalcinate d’Europa. Anche i governi contrari al ponte hanno lasciato tutto com’era. Evidentemente lo slogan serviva solo a non fare nulla.

Nel mondo sviluppato non esiste un istmo di poche miglia marine senza un’infrastruttura imponente. Dalla Scandinavia al Giappone, ogni barriera naturale è stata superata con ingegno e investimenti, creando nuovi corridoi commerciali e turistici. In Italia, invece, ogni progetto diventa pretesto per dire no. È accaduto col nucleare, abbandonato decenni fa, con il risultato di bollette doppie rispetto ai nostri concorrenti. È accaduto con i termovalorizzatori: rifiutati in nome di una purezza ambientale di facciata, paghiamo per spedire rifiuti all’estero dove li trasformano in energia, mentre qui accumuliamo emergenze e costi.

Questo autolesionismo, incomprensibile per qualsiasi cittadino europeo o extraeuropeo, da noi è diventato costume. Eppure il Ponte di Messina merita una discussione seria: non come bandiera di parte, ma come infrastruttura vitale per il Sud, per l’Italia e per l’Europa. Non si tratta solo di ridurre i tempi di viaggio: è un’opera che può cambiare il clima del Paese, costringerlo a guardare lontano.

Il vero impatto non è solo nei cantieri e nei collegamenti, ma nel segnale che l’Italia può smettere di arretrare. Un ponte come volano per logistica, turismo, industria; come argine all’emigrazione dei giovani; come pretesto virtuoso per ammodernare strade, porti, ferrovie. Un’opera che ridisegna la geografia economica e mentale del Paese.

Costruire il ponte significa cambiare postura: passare dall’essere un Paese che guarda i treni passare — letteralmente — a uno che costruisce le proprie rotte. Significa scegliere di essere parte dell’Europa che crea, non di quella che aspetta. Perché un’infrastruttura può unire due sponde, ma soprattutto può unire due idee di Paese: quella che si accontenta e quella che decide di crescere. E la scelta, oggi, non è tra fare bene o fare male: è tra fare o sparire dalla mappa dei protagonisti.


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