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Risorse limitate e priorità strategiche. La geopolitica dietro le oscillazioni di Trump secondo Polillo

Le oscillazioni in politica estera del presidente americano avranno certamente una base caratteriale, ma non solo. Da tempo l’establishment Usa ha spostato l’attenzione dall’Atlantico al Pacifico, ed è in questa chiave che si possono leggere le prese di posizione di Trump. L’analisi di Gianfranco Polillo

Negli annali della diplomazia americana non si era mai vista tanta goffaggine e indeterminatezza. Di solito il punto era mantenuto, evitando atteggiamenti che potessero in qualche modo dimostrare incertezza o titubanza. L’esatto contrario di quanto si è visto ad Anchorage e, più in generale, nel rapporto tra Donald Trump e Vladimir Putin. In tutti gli altri casi era prevalsa una necessaria riservatezza, volta ad evitare di dire cose o anticipare possibili prese di posizione che poi dovevano essere smentite. Ne andava il rispetto che si doveva ad un grande Paese.

Nelle ultime uscite di Donald Trump si è assistito, invece, ad un vero e proprio rovesciamento di questa antica prassi. Cedendo il campo all’affermazione di un proprio ego. Anche a costo di macchiare l’immagine del proprio Paese. Si dirà che tutto ciò fa parte della grande abilità nel negoziare del tycoon. Il che sarà senz’altro vero. Richiederebbe tuttavia una prova che fino ad oggi è difficile trovare. Forse ci sarà domani, ma nel frattempo restano i commenti sconsolati del mondo degli analisti e della diplomazia. Mentre latitano i giudizi positivi.

Era stato lo scorso 15 luglio a marcare un cambiamento significativo della politica estera del presidente. Quel grande annuncio che si sostanziava in un ultimatum di 50 giorni, dato a Putin per porre fine alle ostilità. Un annuncio che aveva allargato il cuore di Zelensky dopo gli scontri e le umiliazioni precedenti. Considerato anche il luogo in cui quelle parole erano state pronunciate: lo Studio Ovale alla presenza del segretario generale della Nato, Mark Rutte.

“Venderemo le armi alla Nato in grandi quantità – aveva aggiunto l’inquilino della casa Bianca – affinché siano poi consegnate all’Ucraina”. Quanto alla Russia, è giunto il momento di cambiare registro. Se non rispetterà quella scadenza sarà colpita da nuove sanzioni che si estenderanno a quei Paesi che hanno finora dato respiro alla sua economia. Dazi che potranno arrivare fino al 100%. Non solo sulle esportazioni russe. Ma anche dazi secondari. Soprattutto a carico di coloro, come la Cina o l’India, che ne acquistavano a sconto petrolio e gas .

Gli storici ci diranno se, fin da allora, si trattò solo di voce dal sen fuggita. Solo dopo poche ore, infatti, in una telefonata esclusiva con la Bbc, Trump aveva dichiarato di essere deluso, ma di “non aver ancora chiuso” con Vladimir Putin. Incalzato sulla sua fiducia nel leader russo, il presidente degli Stati Uniti aveva risposto, in modo evasivo: “Non mi fido quasi di nessuno”. Da parte di Mosca, invece, un silenzio assordante di fronte alle minacce. Salvo le dichiarazioni delle file secondarie della verticale del potere che ripetevano il mantra di sempre sulle cause originarie del conflitto. Elementi da rimuovere.

Nel frattempo gli attacchi militari contro i civili e le città aumentavano di intensità: centinaia di droni e missili supersonici capaci di saturare le scarse difese dell’Ucraina. Un crescendo di vittime, mentre si accumulavano le macerie degli edifici abbattuti. Una situazione sempre meno sostenibile, destinata ad esacerbare gli animi e scoprire la fragilità della posizione americana. Fu così che, a distanza di soli 15 giorni, Donald Trump fu costretto a minacciare un nuovo ultimatum, concedendo a Putin solo 10 giorni di tempo per avviare negoziati indispensabili per giungere quanto meno ad una tregua.

Nel frattempo Keith Kellogg si recava a Mosca nella speranza di poter organizzare un incontro diretto tra i le parti belligeranti. In un primo momento il bilaterale doveva essere tra Putin e Zelensky, alla presenza o meno di Trump. Poi, su richiesta di Putin, l’incontro fu limitato ai due presidenti e una loro delegazione dalla quale fu escluso su richiesta dei Russi (piccolo giallo) lo stesso Kellogg: troppo sensibile verso le posizioni dell’Ucraina. Si scoprirà poi che le informazioni fornite al presidente americano non collimavano con le reali intenzioni di Putin.

Sembrava, comunque, fatta. Nell’euforia del momento Donald Trump si lasciava andare a nuove dichiarazioni. Vedeva la tregua talmente vicina da poterne quasi anticipare l’ora d’inizio. Sebbene da Mosca non vi fossero commenti se non il solito refrain ripetuto come se si trattasse della voce del coro di una tragedia greca. Sorprendente il fatto che Trump, durante lo stesso volo verso Anchorage, indicasse la tregua come scopo principale del vertice, sottolineando che un mancato accordo lo avrebbe lasciato insoddisfatto. Previsione fin troppo facile a giudicare dai successivi risultati del vertice. Non solo nessuna tregua, ma completa adesione alle tesi di Mosca, secondo le quali sarà la pace e non la tregua a sancire la possibile fine del conflitto “una volta venute meno le ragioni originarie che lo avevano determinato”.

L’ultimo atto di questa lunga vicenda – difficile considerarla tragedia o semplice farsa – riguarda il futuro possibile incontro tra Zelensky e Putin, con la presenza dello stesso Trump. Ma solo se richiesto. Ci sarà, non ci sarà? Difficile rispondere. Dipenderà solo dalle decisioni e dalle convenienze del Cremlino. E dalle condizioni che porrà. Trump sostiene che gli Stati Uniti insieme ai Paesi europei sono disposti a garantire la sicurezza e l’indipendenza dell’Ucraina, una volta raggiunta la pace. Anche in questo caso non resta che stare a vedere, nella speranza che dopo tante giravolte almeno questo possa divenire un punto fermo.

Si vedrà. Intanto restano da capire le ragioni di tanto oscillare. C’è indubbiamente un dato caratteriale. La supponenza del tycoon è pari alla sua volubilità. Il fatto poi di aver smantellato i vertici del Deep State lo ha posto oggettivamente in una condizione di inferiorità rispetto ad una Russia, che conserva un apparato consolidato. Sergej Lavrov è il secondo ministro degli Esteri al mondo per permanenza in carica. Ci sono poi le ragioni della geopolitica. Da tempo l’establishment americano (repubblicani e democratici) aveva scelto il Pacifico rispetto all’Atlantico. La stessa globalizzazione aveva questa proiezione. In tempo di vacche magre, inoltre, occorreva utilizzare le minori risorse disponibili verso gli obbiettivi ritenuti più strategici. Anche a costo di destrutturare le vecchie alleanze in Occidente.

Ed ecco allora un possibile perché di tante oscillazioni. Come farvi fronte? Questo è oggi il grande interrogativo, con la palla che passa, in qualche modo, a Zelensky e agli europei, giunti a Washington al capezzale del grande malato. Faranno pressione in nome dell’Occidente, per evitare che Putin possa stravincere. In ciò aiutati da quella parte dell’opinione pubblica americana che guarda attonita alle giravolte del suo presidente. Basterà? Difficile rispondere. Ma qualche giorno fa Donald Trump si è dichiarato colpito dal fatto che i membri della Nato fossero disposti ad aumentare il loro contributo, fino al 5% del Pil, per far fronte alle spese militari. Scelta destinata, in qualche modo, ad incidere sugli stessi meccanismi decisionali della Nato.

No taxation without representation è ancora uno dei cardini della democrazia rappresentativa. Con una storia secolare alle spalle. Vuoi vedere che, alla fine, troverà applicazione anche nelle relazioni internazionali: sottraendo all’uomo di Washington il controllo assoluto della politica estera del vecchio Occidente per una gestione più partecipata? Fosse questo il finale della partita, sarebbe una svolta gravida di conseguenze.


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