L’accordo di pace pare svanito. Degli incontri in Alaska e alla Casa Bianca è rimasta la frase detta da Trump al resistente ucraino, “Preparati a cedere dei territori”. L’impalcatura di un’eventuale intesa deve decollare da qui. Ma parte dell’Europa sta inoltrandosi in tutt’altra direzione con rilanci di continuo che alimentano l’escalation. Per andare dove? Il punto di Maurizio Guandalini
Un amico, noto giornalista americano conservatore, mi rivolge una serie di domande che girano intorno al ruolo dell’Europa e di Zelensky. “Che fanno, cosa vogliono, se avessero seguito le parole di Trump, oggi sarebbero già al tavolo per firmare la pace”, queste sono, in sintesi, le suggestioni che mi ha ripetuto più volte nel nostro colloquio telefonico. Dopo i vertici in Alaska e alla Casa Bianca, assistendo al dibattito di questi giorni, siamo entrati in un vortice nebuloso dove è impossibile trovare un filo logico. La sensazione plastica è che la situazione si sta avvolgendo su sé stessa, in un’impasse preoccupante dove le ragioni di chiunque sono difficilmente distinguibili e soprattutto il ritmo e la sfilza di dichiarazioni di diversi protagonisti delle parti in conflitto non aiutano né a far chiarezza né a portare a rapide soluzioni pacifiche.
Dopo il vertice Trump – Volenterosi – Zelensky sembrava che il Presidente ucraino tenesse più in considerazione le parole di Trump, quelle che aveva detto dopo l’incontro in Alaska “devi prepararti a cedere dei territori”. Di rincalzo il vicepresidente americano Vance, in queste ore ha dichiarato “Parlando con Trump in Alaska Putin ha fatto delle concessioni all’Ucraina”. Rientrato in patria, il resistente ucraino è approdato su un’altra sponda, forte delle affermazioni di alcuni esponenti dell’Europa delle nazioni ha iniziato a dire che “non cederemo territori” e ha ribadito “riconquistiamo territori” chiedendo truppe straniere. Si ritorna indietro a tre anni fa. Ringalluzzito da alcuni volenterosi. A partire da Macron, “Putin non vuole la pace ma la capitolazione di Kiev”, fino all’inglese Starmer e al tedesco Mers, “Saremo sempre al fianco di Kiev”, passando per la Kallas, la commissaria europea per la politica estera, “Cedere territorio dell’Ucraina è trappola di Putin”.
Zelensky si sente rassicurato da quelli del Vecchio Continente che contano. Sicuramente non ha ascoltato l’autorevole intervento di Draghi alla riunione di Rimini, tranchant all’inverosimile, “da Gaza all’Ucraina l’Europa non conta più niente, non ha potere geopolitico né commerciale, è marginale e spettatrice”. Effettivamente da com’è entrata, uscita, rimasta a metà nel conflitto russo ucraino, l’Europa non ha molti meriti da esibire. Insomma, visti i precedenti, Zelensky doveva meglio approfondire. Il fatto che l’Europa ha aperto nuovamente il borsellino per pagare le armi americane non vuol dire tutto. Si tratta di porsi alcune domande fuori dalla retorica compassionevole corrente. Fino a quando? Fino dove portare avanti la guerra? Con quali obiettivi?
È palpabile la superficialità del dibattito – basta vedere gli opinionisti nei talk e leggere i commenti allineati sui quotidiani – mirato a un incitamento rivolto a Zelensky di andare avanti così, di non cedere, di mandare a casa l’invasore russo. È evidente che la questione gira appresso ai territori conquistati da Putin e da quella frase che abbiamo ricordato detta da Trump “Zelensky devi prepararti a cedere territori”. Realismo e pragmatismo rendono evidente che da lì non ci si può scostare. Ha detto, rivolto a Zelensky, l’ex premier Lamberto Dini al Giornale: “Non può dire ai russi: dovete ritirarvi. Non ha senso. Se Zelensky vuole proseguire la guerra senza l’appoggio americano tra un anno o due l’Ucraina non esisterà più”. E di rincalzo il Ministro della Difesa Crosetto al Corriere della Sera ha ribadito: “Zelensky sa che dopo tre anni di guerra gli obiettivi che si era posto devono essere cambiati, non può ottenere tutto, deve mediare tra quel che sarebbe giusto e quel che è accettabile”.
È chiaro il percorso da fare. L’Europa invece di smorzare i toni, levigare gli spigoli, convincere Zelensky, rinfocola i contrasti, le divisioni, si appoggia sulle differenze, sui pericoli imminenti, senza rendersi conto che così fa il gioco di Putin. C’è da chiedersi perché lo fa, quali sono gli obiettivi. Vuole fare la guerra a Putin? È consapevole Bruxelles che il rovescio della medaglia di questo comportamento è andare diritti a un proseguimento del conflitto sine die? Può reggerlo un’Europa praticamente divisa? È esaustivo l’impegno di Macron, Starmer e Merz? In questo si inserisce la polemica tra Salvini e il capo dell’Eliseo che, a parte i toni usati, ha del fondamento perché riflette una visione reale: nemmeno tutti i volenterosi sono concordi sul da farsi rispetto il conflitto.
L’Italia appunto non manderà mai soldati sul territorio ucraino per fare la guerra. E non penso spenderà soldi all’infinito per acquistare armi dagli Stati Uniti. A proposito dell’adagio che Kyiv combatte anche per noi europei, cade anche il pericolo di un’invasione prossima ventura di Putin a casa nostra? Rispondono con adeguata conoscenza Lamberto Dini e Matteo Renzi. Dini, “Putin l’ho incontrato più volte. Un po’ lo conosco. Perciò dico che il timore di una guerra all’Europa è eccessivo”. La seconda affermazione è dell’ex premier Renzi, al Corriere, “Putin è uno straordinario negoziatore. Viene dal Kgb, non è un influencer che punta ai like (…) nella sua visione, per come lo conosco io, c’è l’obiettivo di una nuova Yalta. Putin pensa a come immaginare un ordine mondiale per i prossimi vent’anni”. La sintesi dei due ex premier è fare l’accordo di pace perché in gioco c’è qualcosa di ben più grande del Donbass.