Il presidente americano ha annunciato tariffe di circa il 100% per tutte le aziende che esportano i loro semiconduttori negli Stati Uniti. Le grandi esentate al momento sono Apple e Tsmc. Resta da vedere l’impatto della mossa sul lungo periodo, ma c’è chi osserva che il tycoon ha segnato un autogol e, allo stesso tempo, ha dato un assist alla Cina
La minaccia brandita da Donald Trump è chiarissima: le aziende di chip che non realizzano i loro semiconduttori negli Stati Uniti rischiano dazi del 100%, o giù di lì. “Se vi siete impegnati a produrre qui o lo state già facendo, non dovrete pagare nulla”. L’annuncio è stato una doccia fredda soprattutto per le società asiatiche, bersaglio del presidente americano che da ormai diverso tempo lamenta uno squilibrio nella produzione mondiale. Per correggerlo, le nuove tariffe verranno messe su qualsiasi chip che entrerà nel territorio statunitense. Era un qualcosa di atteso da diverso tempo, almeno da quando il tycoon aveva preannunciato che per il settore tecnologico ci sarebbero stati dei dazi ad hoc. Ma che abbia dato la notizia durante un evento in cui Apple rendeva pubblico il suo nuovo investimento da 100 miliardi di dollari negli States è un segnale piuttosto lampante.
Al suo fianco, c’era ovviamente l’amministratore delegato Tim Cook. Uno che fino a poco tempo fa sembrava essere finito nella lista nera di Trump, ma che ieri si è preso tutti gli elogi possibili, definito come “uno dei più grandi e stimati leader aziendali, geni e innovatori al mondo”. Tutto merito dell’ultimo investimento, che il presidente considera “un passo significativo verso l’obiettivo finale di garantire che gli iPhone venduti in America siano anche realizzati in America”. Trump vorrebbe spostare l’intera produzione in casa, uno scenario ancora lontano dall’essere concretizzato, così come molto lontane sono le cifre che Apple investe in Cina e in India, cuore della produzione. La promessa di Cook è tuttavia di “continuare ad assumere personale negli Stati Uniti e continueremo a sviluppare tecnologie che saranno il cuore dei nostri prodotti proprio qui”. Parole che hanno fatto lievitare il titolo in borsa, con le azioni salite del 5,1% e del 3,5% dopo la chiusura degli scambi.
Non è stata l’unica. Anche quelle della Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC) sono aumentate di oltre il 3%, visto che come Apple anche lei verrà risparmiata dai dazi. Taiwan era finita nel mirino dell’amministrazione americana proprio a causa di quello che Trump considerava un furto nei confronti del proprio Paese. Poi improvvisamente tutto è cambiato. Jensen Huang è entrato nelle grazie di Trump, soprattutto quando ha deciso a marzo di sborsare 100 miliardi di dollari in investimenti del Paese e, il mese successivo, di mettere sul piatto l’astronomica cifra di 500 miliardi di dollari per costruire nuove infrastrutture in America: una in Arizona per testare i chip Blackwell e un’altra in Texas pensata per i supercomputer. Oltre ovviamente ad assicurare che il personale sarà tutto made in Usa.
Altra azienda esentata potrebbe essere Samsung Electronics, che sta collaborando con Texas Instruments per la realizzazione di nuovi stabilimenti negli Stati Uniti. La Corea del Sud, alleato degli americani in Asia, spera che grazie al rapporto che ha con Washington possa contare sul “trattamento della nazione più favorita” così che le sue aziende vengano risparmiate. A perdere terreno sono state soprattutto le aziende giapponesi, con Tokyo Electron ha perso il 2,73%, Renesas il 3,44%.
Resta da vedere quale impatto avrà l’annuncio di Trump sul lungo periodo. I chip sono una componente essenziale dell’intero comparto tecnologico, la benzina senza cui l’intelligenza artificiale rimarrebbe ferma. La questione interessa tutti, a cominciare da Washington, che secondo gli analisti potrebbe vedere la sua produzione alterata – se non destabilizzata – dal rialzo dei prezzi. Che tra l’altro potrebbe incentivare altri a legarsi ai chip cinesi.