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La rivoluzione silenziosa di Pechino e il nuovo asse del potere biotech

Boom di investimenti e degli accordi di licensing “made in China”. Ma mentre Pechino avanza e sfrutta il biotech come terreno di potere, l’occidente rischia di restare a guardare

La Cina guarda al biotech e il biotech guarda alla Cina. La valanga di accordi di licenza siglati quest’anno per farmaci sviluppati in Cina mette in discussione il primato americano nel settore secondo Axios. La strategia di Pechino — dieci anni di investimenti mirati nell’industria biofarmaceutica — sta pagando con prodotti più rapidi e più economici. “Comunque la si misuri, i dati puntano tutti nella stessa direzione: la Cina che prende il comando, che è già leader o che bussa alla porta in queste aree”, ha dichiarato ad Axios Andrei Iancu, ex sottosegretario al Commercio per la proprietà intellettuale sotto la prima amministrazione di Donald Trump.

I NUMERI

Quest’anno, quasi il 40% degli accordi globali di licensing riguarda anticorpi, terapie cardiache e altri candidati farmaco “made in China”, contro meno del 3% appena cinque anni fa, stima Evaluate Pharma. E secondo un’analisi pubblicata da Nature, undici big pharma hanno investito oltre 150 miliardi di dollari in asset innovativi provenienti dall’Asia – principalmente da Pechino – fra il 2020 e il 2025. Nel complesso, queste aziende hanno acquisito oltre 50 asset in fase di sviluppo o già pronti all’avvio delle sperimentazioni nello stesso periodo, che rappresentano in media circa il 5,5% delle pipeline cliniche delle pharma. Oggi, il dragone detiene circa un terzo degli asset clinici globali, alla pari con gli Stati Uniti e ben davanti all’Europa.

UNA STRATEGIA ARTICOLATA

Non si tratta di un fenomeno improvvisato. Pechino promuove sistematicamente il biotech dai primi anni Duemila, investendo risorse consistenti nelle capacità di ricerca. Il risultato è che oggi la Cina è tra i maggiori produttori al mondo di pubblicazioni scientifiche, segnale di un ecosistema che non si limita più a replicare ma punta a innovare. Nel 2022 la Cina ha inserito la bioeconomia nel proprio arsenale strategico, con un piano quinquennale che fissa traguardi al 2025 in quattro aree chiave: biofarmaceutica, bio-agricoltura, biomanufacturing e biosicurezza. L’ambizione è ridurre la dipendenza dall’estero e spezzare i legami di vulnerabilità tecnologica, in linea con la logica di autonomia che oggi permea ogni settore strategico.

UNA PARTITA SU PIÚ LIVELLI

Ma – sempre Axios avverte – mentre Pechino corre, Washington frena. Tagli al personale della Fda, la riduzione pari al 40% del budget dei National institutes of health proposta dall’amministrazione Usa e lo stop a 500 milioni di dollari per lo sviluppo di vaccini a mRna rischiano di soffocare capitali e talento, secondo alcuni esperti. Ad aprile la National security commission on emerging biotechnology ha pubblicato il suo report finale con una raccomandazione chiara. Il governo Usa dovrebbe destinare almeno 15 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per liberare più capitale privato a sostegno della biotech nazionale. In parallelo, il Congresso prepara il ritorno del Biosecure act, che punta a tagliare fuori le aziende cinesi considerate “a rischio” dai programmi di ricerca finanziati con fondi federali. Perché la partita strategica sul biotech si gioca su più livelli, anche in termini di sicurezza nazionale, con ricadute che toccano la difesa e la resilienza delle infrastrutture critiche. E chi ha chiaro questo aspetto può vincere la partita.

LA POSTA IN GIOCO PER L’UNIONE EUROPEA

Bruxelles, invece, è ancora al lavoro su un Biotech act – la consultazione pubblica, su cui si baserà la valutazione d’impatto della Commissione è aperta fino a novembre e l’adozione è attualmente prevista per la fine del 2026 – pensato per costruire un quadro regolatorio e industriale più favorevole. Ma se nel suo rapporto sulla competitività, Mario Draghi ha inserito la farmaceutica (e con essa in parte il biotech) tra i dieci settori in cui l’Europa deve concentrare gli investimenti per restare agganciata alla frontiera tecnologica, il Vecchio Continente rischia di cadere nel tranello del too little, too late. Secondo un report del Mercator institute for China studies dello scorso aprile, l’Europa può contare su punti di forza non marginali – un mercato ampio, una protezione solida della proprietà intellettuale, una base di ricerca di eccellenza – ma resta fragile sul terreno della capitalizzazione e della capacità di portare le innovazioni dal laboratorio al mercato – l’Unione europea infatti intercetta solo il 5% dei fondi di venture capital a livello globale, contro il 52% degli Stati Uniti e il 40% della Cina. Gli autori dello studio, Alexander Brown, senior analyst, e Jeroen Groenewegen-Lau, capo del programma “Science, technology and innovation” presso l’istituto avvertono: “Il crescente rischio di interruzioni nelle catene di fornitura globali e nelle reti di innovazione, o di relegare l’Europa a un ruolo marginale nella rivoluzione biotech, impongono un’azione ambiziosa già da ora”. Resta ora da vedere come la Commissione europea tradurrà in azione i risultati della consultazione e in che modo questi orienteranno la futura proposta legislativa. Ma il tempo stringe.


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