La crisi si inserisce in un quadro più ampio: destinato a coinvolgere tutti i principali partner europei ed il Club dei volenterosi. L’esprit républicain sembra abbia dovuto cedere il passo alle passioni primordiali della politica. Sta avvenendo in Francia, può accadere in Germania e rimbalzare in Italia. Che i riformisti di qualsiasi rito e ovunque essi siano collocati battano un colpo. Prima che sia troppo tardi. L’analisi di Gianfranco Polillo
“Gallia est omnis divisa in partes tres” (La Francia, nel suo complesso, è divisa in tre parti) ci insegnavano a scuola, mentre traducevamo il De bello gallico di Caio Giulio Cesare. Ed allora era impossibile supporre che, a distanza di anni, fosse ancora quella la rappresentazione della Francia. Nella sua più alta espressione. Quel Parlamento che forse oggi ha deciso di suicidarsi, negando la fiducia a Francois Bayrou, scegliendo la via di una possibile dissolution. Termine che, in francese, assume un significato sinistro. Mentre sullo sfondo si agita la rivolta nel nome di “bloquons tout”: una nuova manifestazione di piazza, dopo quella dei Gilet Gialli di qualche anno fa, figlia dello spontaneismo che nasce dalla rabbia sociale.
Quelle tre parti sono rappresentate dalla destra di Marine Le Pen, la sinistra di Jean-Luc Mélenchon e dal centro etero diretto dallo stesso Emmanuel Macron. Forze, più o meno, di identica grandezza, ed altrettanto inconciliabili. Il che rende difficile risolvere l’equazione del potere. Tanto più se si considera la situazione economica della Francia, che ha bisogno di una cura da cavallo per arrestare un deriva sempre più sud americana. Chi si assumerà l’eventuale responsabilità di una politica “lacrime e sangue”? All’orizzonte non si vede nessun Watson Churchill, ma solo mezze figure preoccupate soltanto di conservare il loro piccolo potere, soffiando sul fuoco. Mentre la patrie rischia di sprofondare.
In Francia, come del resto in molti altri Paesi dell’Occidente, si celebrano ormai i funerali delle vecchie teorie di Harold Hotelling che postulavano il trionfo dell’elettore mediano. Per cui era buona norma per quelle forze politiche, che volevano vincere le elezioni convergere. verso il centro. La logica che sorreggeva quello schema era l’ipotesi che il voto dell’elettore centrista valeva doppio. Spostandosi infatti da uno schieramento all’altro, toglieva un voto al suo vecchio schieramento e ne aggiungeva uno a quello nuovo. Sennonché quelle condizioni avevano corso legale solo nel caso in cui i due schieramenti fossero relativamente omogenei ed in qualche modo fungibili.
In Francia, invece, ma non solo lì, gli schieramenti sono talmente diversi da rappresentare vere e proprie comunità in guerra tra loro. Dove il senso di appartenenza è più forte dello stesso spirito nazionale. Ed allora che ogni ipotesi di compromesso – il sale della politica – cede passo allo spirito dell’ “après moi le déluge”. Riportando alla mente quella che fu la fine di un epoca. Che oggi, seppur sotto mutate spoglie, si può ripresentare. Il limite maggiore di una frammentazione politica così spinta e irriducibile è quello che alla vittoria elettorale di una fazione (più che di un partito politico) non vi sia poi la possibilità di garantire il governo unitario del Paese. Salvo affidarsi ad un tecnocrate capace qualche volta (ma non è detto) di imporre la cura necessaria.
E che in Francia questa cura sia indispensabile è dimostrato dall’esistenza di una cartella clinica che ne fa il vero “malato d’Europa”. Più della Germania, della Gran Bretagna o della stessa Italia. Per non parlare della Spagna, che pur tra una crisi politica e l’altra, conserva tuttavia un vero e proprio primato in termini di sviluppo relativo. Per i cugini francesi, invece, il Covid ha rappresentato un giro di boa. Da allora tutti i parametri sono peggiorati. Il tasso di crescita è risultato superiore solo a quello tedesco e leggermente inferiore a quello italiano. Ma a prezzo di un deficit di bilancio che mostra una persistenza a prova di bomba. Nei prossimi anni (2025/30) il Fmi prevede una media del 6%, quando gli altri Paesi del blocco concorrente (Germania, Italia, Spagna e Gran Bretagna) saranno al di sotto della metà.
Nelle condizioni descritte è facile prevedere che il debito pubblico, pari nel 2023 al 110,6% del Pil, possa se non superare, almeno raggiungere quello italiano. I margini di un possibile intervento, infatti, sono quanto mai risicati. La pressione fiscale, in Francia, è la più alta dell’intera Ue. Nel 2024, quasi 3 punti di Pil in più rispetto all’Italia; 5 punti in più sulla Germania, 8 punti sulla Spagna e la Gran Bretagna. Distanze siderali. Che spiegano tra l’altro il suo scarso dinamismo produttivo che si traduce in un deficit costante (dal 2008) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti e da una posizione patrimoniale negativa netta dell’estero pari nel 2024 al 27,9% del Pil. Quando quella italiana era creditoria per il 13,8%.
Sarebbe, comunque, del tutto fuori luogo rallegrarsi di un paragone con l’Italia che vede il nostro Paese godere di un buon mercato. Com’è dimostrato dagli andamenti degli spread sui titoli del debito sovrano. Quelli francesi sugli Oat (Obligations Assimilables du Tresor) e quelli italiani sui BTP a 10 anni si collocano, più o meno. sullo stesso crinale. Ma all’inizio dell’anno questi ultimi quotavano 115 punti base, (contro gli 85 di oggi). Mentre quelli francesi sono rimasti stazionari. Non hanno cioè beneficiato delle bizze di Donald Trump che, con la sua politica oscillante, sta dirottando verso l’Europa e verso l’oro un flusso crescente di investimenti. Come si può vedere dall’andamento declinante del dollaro.
A differenza del maldestro tentativo di Bayrou di accusare l’Italia di dumping fiscale per giustificare la crisi del suo governo (poi inevitabilmente esplosa) la situazione francese non può che preoccupare. Quella crisi si inserisce in un quadro più ampio: destinato a coinvolgere tutti i principali partner europei ed il Club dei volenterosi. Mentre sul confine orientale dell’Europa, la Russia di Vladimir Putin continua la sua guerra di conquista. Se poi si guarda all’America di Trump il quadro diventa ancora più fosco. Sembrerebbe quasi che i Paesi liberi e democratici siano a corto di risorse. Che l’esprit républicain abbia dovuto cedere il passo alle passioni primordiali della politica. Sta avvenendo in Francia, può accadere in Germania e rimbalzare in Italia. Che i riformisti di qualsiasi rito e ovunque essi siano collocati battano un colpo. Prima che sia troppo tardi.