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La politica industriale è tornata di moda. Zecchini spiega perché

La crescita duratura e consistente non verrà semplicemente dalle manovre macroeconomiche ma da politiche industriali corali, orientate al nuovo, onnicomprensive nello strumentario, fondate su approfondita conoscenza e con una governance efficiente. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Dagli anni 90 fino al primo decennio del secolo parlare di politica industriale tra accademici e decisori politici suscitava più scetticismo e indifferenza che interesse e riflessione. Il credo dominante era che questa categoria di interventi pubblici aveva prodotto risultati contrastanti e costi elevati, che mancava a monte di una teoria analitica tale da fungere da guida, che ben difficilmente i governi erano in grado di identificare le direzioni d’investimento di successo dopo le esperienze disastrose dei due decenni precedenti e che contrastava con i principi e i vantaggi di una sana ed equa concorrenza di mercato. L’unica forma di politica industriale giustificabile e appropriata consisteva in interventi di tipo orizzontale sui fattori di produzione e sul funzionamento concorrenziale dei mercati per superare l’inadeguatezza delle forze di mercato nel fungere da propulsore di uno sviluppo economico fondato su innovazione e ricerca, e su un’uniforme diffusione sul territorio, ossia ovviare ai cosiddetti fallimenti di mercato.

Dal primo decennio del nuovo secolo si è assistito a un graduale cambio di atteggiamento favorito dalla straordinaria crescita conseguita nelle economie emergenti, con in testa la Cina e l’Estremo Oriente, a seguito di politiche di sostegno dirette verso preselezionati settori produttivi, infrastrutture funzionali agli stessi e fondamentali input di produzione. Avanzamento tecnologico nel manifatturiero e nei servizi, formazione delle competenze, energia in quantità e a costi competitivi, strutture per la R&S ed ecosistemi favorevoli all’imprenditoria sono gli assi portanti delle loro strategie di supporto all’economia. La globalizzazione dei mercati ha favorito questi indirizzi offrendo alle economie emergenti la possibilità di competere da posizioni di vantaggio con quelle europee ed americana.

L’indebolimento della crescita dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009, seguita dalla stagnazione e vari shock globali hanno indotto i governanti nelle economie avanzate e gli accademici a rivalutare l’importanza della politica “industriale”. Questa è intesa non nel senso tradizionale di aiuti all’industria e partecipazioni dirette nelle imprese, ma di un complesso di azioni governative volte a indirizzare il capitale (tanto pubblico che privato), e il lavoro verso comparti produttivi ed aree ad alto potenziale di sviluppo, progetti di R&I, infrastrutture fondamentali, sistema energetico e input immateriali. Al centro dell’azione è l’obiettivo della ripresa sia della produttività, sia della competitività.

Di entrambe e delle strategie “industriali” conseguenti si è discusso intensamente la settimana scorsa nel principale convegno mondiale sulla produttività, organizzato dall’Ocse e dal governo britannico a Londra. In un contesto di declino demografico il preoccupante rallentamento della produttività nella UE e negli Usa, anche se in quest’ultimo è in ripresa da un biennio, ha condotto alla bassa crescita e alla stagnazione dei redditi pro-capite. In Europa, le politiche macroeconomiche, condizionate da finanze pubbliche in stato precario, non si sono dimostrate adeguate per innescare una ripresa durevole delle attività economiche.

Il notevole ribasso del costo del denaro non sembra sufficiente a rianimare investimenti e produttività, particolarmente di fronte agli sconvolgimenti prodotti dalle politiche commerciali dell’amministrazione americana. Sono proprio le nuove misure di politica industriale introdotte bruscamente dal presidente Trump e ancor prima dal presidente Biden, a costringere l’Europa a rivedere il suo approccio. Laddove gli strumenti di gestione macroeconomica si rivelano inadeguati e un’impetuosa rivoluzione tecnologica favorisce i paesi vincenti a spese di quelli perdenti, non si può che ricorrere a una nuova politica industriale. Ormai Stati Uniti, Regno Unito e i maggiori paesi europei, al pari di Cina e Giappone, hanno messo in campo strategie di politica industriale ad ampio raggio e portata.

Alcuni tratti sono comuni a queste strategie. In primo piano, tutte si concentrano sul sostegno alle nuove tecnologie e sui settori trainanti ad alto potenziale, sull’ambiente economico per le imprese e sulle aree più svantaggiate nello sviluppo. Si tende a bilanciare la concentrazione di attività nelle aree prossime ai grandi agglomerati urbani con incentivi agli investimenti nelle meno favorite. Si difendono le industrie di base che sono in difficoltà nel competere con i settori emergenti, in quanto rappresentano un baluardo insostituibile per la sicurezza economica nazionale. Le barriere da superare riguardano essenzialmente l’accesso alle fonti di energia, il peso delle regolamentazioni e le carenze di finanziamenti appropriati.

Una delle leve principali su cui fare affidamento e su cui insistono tutti i paesi è la formazione di competenze adeguate e il miglioramento della preparazione della forza lavoro. Altra leva importante consiste nello stabilire un intenso coordinamento tra soggetto pubblico e imprenditoria sui grandi orientamenti negli investimenti, sui nodi che ostacolano lo sviluppo delle iniziative imprenditoriali e sui modi di scioglierli. Attorno a questi capisaldi si colgono significative differenze tra paesi nelle modalità di impostare la strategia. Ma il consenso unanime è nel riconoscere che per aver successo qual che sia la strategia deve coinvolgere tutti i ministeri per le aree di competenza e che l’intera compagine governativa deve condividere la responsabilità di attuarla con successo.

In Francia, la strategia è nelle mani esclusive del governo centrale, pone molta enfasi sulle sfide tecnologiche e sulle imprese emergenti a cui destina la metà degli interventi, e attribuisce gli aiuti finanziari sulla base di gare tra progetti. Nel Regno Unito la strategia si appoggia alle indicazioni del nuovo Consiglio Consultivo, un’istituzione che serve a stabilire un dialogo permanente col mondo dell’imprenditoria. In altri paesi, si concentra sulla transizione verde e sulla dimensione regionale.

Lo scoglio principale per la politica industriale è la sua compatibilità con l’esigenza di affermare una competizione ad armi pari tra gli operatori nel mercato. Qui le opinioni si divaricano tra coloro che danno priorità a non distorcere le posizioni concorrenziali e quanti la considerano come un antidoto alle debolezze dei meccanismi di mercato nel permettere di conseguire l’interesse nazionale. Gli esperti dell’OCSE propendono per la riforma in senso concorrenziale dei mercati dei prodotti e sulla rimozione degli impedimenti regolatori.

Scoglio ancor più difficile è la mancanza di dati sufficienti per misurare le grandezze su cui fondare le scelte di policy e la carenza di capacità di analisi nel settore pubblico. La stessa misurazione della produttività del lavoro, del capitale finanziario, di quello organizzativo e di quello multifattoriale è soggetta a consistenti margini di incertezza che gettano ombre sulla validità delle conclusioni di policy. Nuova luce potrebbe trarsi da un uso esteso di dati microeconomici tratti dai bilanci delle singole imprese che fungano da integratore essenziale per l’accertamento della validità dei macroaggregati e l’interpretazione dei loro andamenti.

Alla fine, alcuni messaggi promanano chiaramente dal convegno. Primo, la politica industriale ha assunto un ruolo sempre più importante nella maggioranza dei paesi e dovrebbe intersecare tutte le altre politiche basandosi su solide evidenze quantitative e su analisi approfondite. Se ben disegnata nelle sue componenti orizzontali e verticali può limitare gli effetti distorsivi che premiano le posizioni dominanti di alcune grandi imprese. L’obiettivo ultimo è sollecitare gli investimenti, tanto i tangibili quanto gli intangibili, assegnando a questi ultimi un peso crescente nel rilancio della produzione e dell’occupazione. La dimensione internazionale delle politiche è divenuta un condizionamento pesante per le scelte interne e va affrontata mediante uno sforzo per il coordinamento tra paesi. Il peso della regolamentazione va alleggerito attraverso semplificazioni.

Sia la Commissione Ue sia l’Italia riconoscono che va sviluppata una strategia di politica industriale, ma sui punti d’intervento si discostano in parte dalle indicazioni del Convegno. La prima propone per bocca della von Der Leyen un’accelerazione nell’unificazione del mercato europeo, abbattendo i restanti impedimenti nazionali alla concorrenza, in particolare, nei mercati dei capitali, dell’energia, dei servizi e delle telecomunicazioni. In questo disegno mira a potenziare le infrastrutture energetiche e a stabilizzare i prezzi dell’energia. Si proietta anche oltre, con la scelta di sostenere la produzione europea di auto elettriche e delle relative batterie per contrastare l’invadenza di quelle cinesi. Insiste anche nel vincolo della preferenza verso i prodotti europei nella transizione ecologica. Con questa impostazione si discosta dalla neutralità tecnologica, accetta un modello di politica con interventi orizzontali e verticali, e tende verso forme di protezione del Mercato Unico contro la concorrenza esterna. Sono segni del nuovo corso dominante su scala globale.

In Italia l’architettura della strategia, tracciata nel Libro Verde del Mimit, pur restando coerente con le considerazioni generali provenienti dal Convegno e dalla Commissione, se ne allontana nel promuovere il ruolo dello Stato stratega, che orienta e coordina gli operatori con l’obiettivo di difendere i punti di forza del manifatturiero italiano. Indica scelte alternative per la sostenibilità ambientale nell’energia e nel automotive secondo il principio della neutralità tecnologica e tende a temperare il cammino verso la decarbonizzazione dell’economia. Il problema della concorrenza viene toccato principalmente nella sua dimensione di barriere tra paesi più che sul piano interno.

L’ultimo contributo all’impostazione di una strategia industriale per il Paese proviene dal primo Rapporto del nuovo Comitato nazionale per la produttività, pubblicato nei giorni scorsi. L’analisi poggia sulla costatazione del ritardo della dinamica della produttività rispetto ai paesi partner, che tocca anche la manifattura ma non il comparto delle costruzioni, in cui si rileva una vivace ripresa. Tra le cause, l’indebolimento degli investimenti, particolarmente in capitale intangibile, lo scarso impegno nella ricerca e innovazione, la piccola dimensione aziendale e il prevalere dell’intensità occupazionale.

Qui si avanza la tesi discutibile secondo cui, facendo leva sui relativamente bassi salari, per giunta ridimensionati dalla recente fiammata d’inflazione, le imprese tendono a ricorrere maggiormente a forza lavoro a modesta produttività come sostituto di maggiori investimenti in innovazione, nuove tecnologie e asset intangibili. Sulla misurazione del produttività incombono, tuttavia, diversi dubbi, perché distorta dall’alta inflazione, dal variare del mark-up sui costi e dai problemi di quantificazione del capitale organizzativo e di marketing, oltre che della produttività multifattoriale. Anche assumendo che queste incertezze toccano ugualmente i dati dei paesi a confronto, è difficile accettare che vi sia un consistente rapporto di sostituzione tra lavoro e capitale, specialmente se si deve soddisfare una domanda che richiede tecnologie avanzate ed affrontare la competizione con paesi tecnologicamente più avanzati.

Le cause vanno ricercate piuttosto nella scarsa propensione a investire, nelle carenze di competenze e di formazione, nell’inadeguata dimensione aziendale, nella scarsa concorrenza interna e nelle debolezze dell’ecosistema per l’imprenditoria. Le proposte del Rapporto si concentrano su questi aspetti, ma fanno eccessivo affidamento sullo strumento dei crediti d’imposta generalizzati a scapito dell’esigenza di essere selettivi nel sostenere i più importanti investimenti innovativi. In essenza, dai dibattiti e dalle proposte il messaggio per l’Italia e gli altri paesi Ocse è che la crescita duratura e consistente non verrà semplicemente dalle manovre macroeconomiche ma da politiche industriali corali, orientate al nuovo, onnicomprensive nello strumentario, fondate su approfondita conoscenza e con una governance efficiente.


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