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La sentenza Google come paradigma. L’antitrust Usa non risolve i problemi

Il fatto che a un anno di distanza lo stesso giudice che aveva sentenziato contro Big G, considerandolo un monopolista, abbia utilizzato delle contromisure a dir poco deboli, è una conferma di come le regole sull’anticoncorrenza possano rappresentare uno strumento inefficace per cambiare le regole del mercato

!uella di Google non è una vittoria solo contro il governo americano, ma più in generale contro un approccio. La sentenza con cui è stata respinta la causa mossa contro il colosso di Mountain View sulla sua presunta attività di monopolio, per cui la richiesta era quella di cedere Chrome e il sistema operativo Android, ha permesso a Big G di compiere un balzo in borsa e di tracciare la strada per il futuro: come scrive il Wall Street Journal, l’antitrust fa fatica a stare dietro alla tecnologia.

Sebbene il giudice Amit Mehta – lo stesso che un anno fa aveva giudicato Google un monopolista – abbia constatato delle irregolarità, obbligando Google a stipulare accordi esclusivi per la distribuzione dei suoi servizi chiave (tra cui la ricerca web, Chrome e il software di intelligenza artificiale Gemini) e a condividere alcuni dati del motore di ricerca con i concorrenti per permettergli di migliorare le loro prestazioni, allo stesso tempo riconosce che il governo americano “ha esagerato nel chiedere la cessione forzata di queste risorse chiave, che Google non ha utilizzato per attuare alcuna restrizione illegale”. Con la comparsa di nuovi attori del calibro di Open AI e Perplexity, il mercato, sostiene il giudice, è cambiato rispetto a quando era stata intentata la causa, nel 2020. Cinque anni possono sembrare un lasso di tempo breve, ma in termini tecnologici si tratta di un’era geologica.

Soprattutto, spiega un esperto antitrust al Wsj, “la nostra legge si concentra sul danno e non sul potere”. Le regole sull’anticoncorrenza non sono “un buon strumento per la deconcentrazione generale dei mercati o per lo smantellamento dei monopoli, a meno che non siano stati acquisiti con condotte illegali”. Lo dimostra la sentenza stessa. Uno degli aspetti più problematici era il fatto che Google aveva pagato 20 miliardi dollari ad Apple lo scorso anno affinché installasse il suo motore di ricerca come predefinito ed esclusivo negli iPhone, cosa che non potrà continuare a fare. Ma in base a quanto deciso dal giudice Mehta potrà continuare a farlo per rimanere motore di ricerca predefinito. Un cambiamento gattopardiano, che alla fine lascia le cose sostanzialmente nello stesso posto – o comunque le sposta di poco.

Anche per quanto riguarda la condivisione dei dati, se rapportata alla velocità con cui avanza il progresso tecnologico, può essere vista come una ritorsione parziale. “In un settore in rapida evoluzione come quello dell’intelligenza artificiale, dove le classifiche cambiano ogni poche settimane, non vedo come un concorrente possa elaborare una strategia dati significativa attorno alla pubblicazione dei dati da parte di Google”, afferma al giornale americano il professore presso l’Università della Pennsylvania esperto di IA Kartik Hosanagar.

La vicenda è spinosa quanto complessa. “Non si giudica qualcuno colpevole di aver rapinato una banca e poi lo si condanna a scrivere un biglietto di ringraziamento per il bottino. Allo stesso modo, non si dichiara Google responsabile di monopolizzazione e poi si elabora una soluzione che le consenta di proteggere il suo monopolio”, lamentano dall’American Economic Liberties Project (non l’unica ong a protestare per la sentenza). Ma il problema è alla base. Come sottolinea un ex funzionario del Dipartimento di Giustizia, “siamo stati troppo ottimisti su ciò che si può ottenere con il solo contenzioso antitrust”.


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