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L’economia italiana alla ripresa autunnale con i grossi problemi della crescita. L’analisi di Zecchini

Di fronte al ristretto vincolo di risorse aggiuntive nel bilancio pubblico è essenziale che il governo si concentri nel dare priorità agli interventi che rafforzano il potenziale produttivo del Paese rispetto a quelli a mero scopo elettorale. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Come negli anni recenti l’avvio dell’autunno si presenta problematico per l’economia italiana e per le autorità economiche. Stretto tra un’economia mondiale in rallentamento e l’esigenza di portare avanti l’azione di risanamento della finanza pubblica in linea con il programma concordato con Bruxelles, il governo è chiamato a conciliare istanze diverse e talvolta contrastanti nella prospettiva di rianimare l’attività economica, tornata ai ritmi da zero virgola percento all’anno. Alle irrisolte sfide ereditate nel 2024 se ne sono aggiunte nuove nel rendere ancor più fosco il quadro mondiale.

Il fattore più dirompente è certamente il dilagare del protezionismo commerciale sotto la spinta delle sconvolgenti politiche tariffarie e di ridisegno delle alleanze lanciate dal nuovo presidente americano. In pochi mesi ha eretto barriere commerciali consistenti, ha chiesto apporti finanziari agli alleati e non-alleati per poter operare sul mercato americano e ha messo in discussione il quadro di sicurezza e mutua difesa che ha garantito all’Occidente pace e stabilità dal secondo dopoguerra.

Per le imprese italiane la triplicazione dei dazi americani sulle loro esportazioni nel principale mercato extraeuropeo ha imposto una corsa a riorganizzare le strategie e le filiere di produzione, puntare sulla diversificazione degli sbocchi, e investire maggiormente in innovazione e ricerca per ridurre la reattività della domanda americana ai rincari dei prodotti importati. La barriera tariffaria all’interscambio risulta ancor più penalizzante per il sommarsi dell’apprezzamento dell’euro sul dollaro, che ha rincarato i prodotti europei di oltre il 16% da inizio d’anno.

A seguito di questi andamenti, nonché del rallentamento dell’economia americana, quel mercato offre agli esportatori europei opportunità minori del passato, a meno che spostino la loro produzione oltreoceano. Questa opzione sarebbe un’effettiva perdita per l’economia italiana, una perdita difficilmente compensabile, nel breve periodo, con un maggior impegno a espandersi nei mercati europei, sia per le numerose barriere persistenti all’interno del Mercato Unico, sia per la sostanziale stagnazione dell’attività economica nell’area dell’euro. Le più recenti stime del Fmi la collocano attorno all’1% nell’anno e nel successivo. In specie, i segnali provenienti dall’economia della Germania sono ancora molto incerti sul superamento della decrescita degli scorsi anni e al massimo lasciano prevedere un ritorno alla crescita zero quest’anno.

Ad aggravare le prospettive concorre il crescente impegno finanziario dell’Europa e anche dell’Italia per sostenere la resistenza dell’Ucraina all’aggressione di Mosca e per potenziare il sistema nazionale di difesa, in linea con l’impegno preso ultimamente nell’ambito della Nato. Maggiori risorse rispetto al passato devono essere dedicate a questi scopi, investimenti e spese a carico del bilancio pubblico, che non hanno lo stesso impatto sulla crescita degli investimenti diretti allo sviluppo economico e sociale del Paese. Secondo le stime della Bce, riportate nel Bollettino economico di agosto, l’effetto moltiplicatore di queste spese sul Pil varia tra lo 0,2% circa nel 2025 e lo 0,7% nel 2027, con margini di incertezza notevoli. L’impatto sul reddito nazionale, in realtà, differisce a seconda della destinazione della spesa, ovvero se serve a copertura di importazioni, se comporta restrizioni ad altri capitoli di spesa più produttivi per il

Paese, se è finanziato con debito pubblico e se è diretta al personale e alla sua formazione e alla ricerca, oppure all’acquisto di armamenti. Un effetto positivo sulla crescita dovrebbe avere, in contrasto, il completamento degli investimenti del Pnrr entro la data limite dell’agosto 2026. L’esecuzione del Piano è stata oggetto ad oggi di 5 pacchetti di modifiche approvate da Bruxelles, e di una lenta realizzazione delle opere, che mette in dubbio che il Paese possa completarle alla scadenza prevista. L’Ue ha erogato al giugno scorso il 63% circa dei fondi stanziati (122,2 mld a fronte di 194,4 mld assegnati), ma gli effetti sulla crescita appaiono modesti, benché l’importo finanziario equivalga al 5,7% del Pil del 2023. In realtà, i fondi effettivamente spesi al marzo scorso si collocavano, secondo la Corte dei Conti, al 52,3% di quanto ricevuto dal Paese, ovvero in termini di Pil 2023 al 3%. Si tratta di interventi per circa un punto percentuale di Pil all’anno nel triennio scorso, un importo che avrebbe dovuto dare una spinta consistente all’espansione economica. Le stime econometriche d’impatto, seppure con tutti i margini di indeterminatezza che accompagnano le simulazioni controfattuali, mostrano, invece, effetti nell’ordine di qualche decimale di punto.

Bisognerebbe attendere alcuni anni perché gli effetti del Pnrr si dispieghino in pieno e diano ragione alle motivazioni che hanno indotto i paesi dell’Ue a lanciare questo ambizioso piano di crescita sostenibile e di riforme. Il carattere innovativo degli interventi per la digitalizzazione, la transizione verde, la competitività di sistema, l’energia e l’istruzione comportano cambiamenti di sistema che i soggetti economici assorbono con gradualità. Ma non si può negare che la riorganizzazione voluta del sistema incontra resistenze, mentre diversi interventi non appaiono abbastanza produttivi di crescita. Gli esempi non mancano, come la riqualificazione dei giardini storici e le piccole opere nei Comuni e nei piccoli borghi. Anche le riforme non incidono a sufficienza per accrescere efficienza e produttività, come si può desumere da quelle nei campi dell’istruzione e della concorrenza di mercato.

L’accelerazione della realizzazione degli interventi che dovrebbe avvenire nei prossimi dodici mesi per completarli entro la scadenza non appare nemmeno sufficiente a trainare l’economia verso una crescita adeguata e sostenibile nei prossimi anni. I condizionamenti che derivano dal quadro esterno, soprattutto rallentamento dei commerci, protezionismo e tensioni geopolitiche, al pari di quelli dall’interno non lasciano abbastanza spazio per una politica di bilancio votata alla crescita. Tra l’altro, i frequenti appuntamenti elettorali tendono a distogliere l’attenzione delle forze di governo dal perseguire una strategia di crescita nel medio periodo e di trasformazione del modus operandi del sistema economico, come imposto dalla rivoluzione digitale e tecnologica in corso. Si tende, piuttosto, a soddisfare interessi particolari, come nel campo del welfare, a spese di quelli generali, che producono benefici durevoli nel tempo.

Come affrontare il problema di generare una crescita consistente e duratura? Benché il Pil reale per il periodo 2025-2026 sia previsto espandersi a tassi inferiori a quelli medi dell’area europea (0,5% e 0,8% a fronte di 1% e 1,2% secondo il Fmi), la situazione economica italiana non presenta le tensioni macroeconomiche degli anni precedenti, ma risente molto del più difficile quadro internazionale. Ad esempio, nel secondo trimestre dell’anno si osserva un lieve decremento del Pil reale rispetto al periodo precedente (-0,1%), con una crescita acquisita per l’anno dello 0.5%. Il fattore principale all’origine di questo risultato è stato il cedimento delle esportazioni (-1,7%) in contrasto con l’incremento delle importazioni (0,4%), che determina un contributo negativo della componente estera (netta) della domanda.

La componente interna ha, invece, sostenuto l’espansione soprattutto per la parte degli investimenti fissi lordi (0,2%), a parte l’accumulo di scorte, mentre i consumi delle famiglie e la spesa pubblica sono rimasti fermi. In ascesa anche l’occupazione e i redditi di lavoro, con un tasso di disoccupazione ai minimi storici e quello di occupazione ai massimi. L’inflazione nel contempo si mantiene stabile sotto il limite del 2% annuo. Questi segnali positivi in un contesto di andamento stagnante della produzione lasciano presumere un indebolimento della produttività per addetto, fattore che si conferma come il problema principale per la sostenibilità dell’avanzamento del prodotto nazionale negli anni futuri in un Paese in chiaro declino demografico.

Il problema della produttività non appare prioritario nella nuova programmazione del bilancio pubblico per il medio-termine. Nel Documento di finanza pubblica dell’aprile scorso si parla spesso di sostenere la produttività, ma le misure sono frammentate e di scarso impatto, in quanto non affrontano il problema su scala di sistema. L’enfasi è posta, invece, sull’incremento occupazionale, malgrado nel Piano strutturale di bilancio presentato alla Commissione Ue un anno fa si parli ampiamente di una strategia per la produttività. Con la dinamica vincolata della spesa pubblica netta (+1,6% annuo), che è monitorata da Bruxelles, nel contesto attuale rimane poco spazio per un consistente stimolo alla ripresa congiunturale della domanda interna.

Le misure in discussione comprendono tagli alla tassazione dei redditi per il ceto medio, rinvii delle norme sul ritardo dei pensionamenti, misure per il lavoro, per aiutare le imprese colpite dai maggiori dazi e per una riduzione strutturale del loro costo dell’energia. Restano, altresì, da rinnovare gli interventi in scadenza per le imprese, in specie quelli per l’innovazione 4.0 e 5.0, quelli per le Zes nel Mezzogiorno, l’Ires premiale e le garanzie sui crediti alle PMI. Non tutte queste proposte hanno un rilevante effetto sul potenziale produttivo dell’economia.

Il reddito che si rende disponibile per le famiglie con le riduzioni di imposte non necessariamente verrà speso in consumi e se lo sarà, potrà andare a vantaggio dell’importazione di beni e servizi dall’estero. Le compensazioni alle imprese penalizzate dai nuovi dazi non necessariamente inducono a nuovi investimenti e alla ricerca di nuovi mercati. Sulle riforme per la competitività, la concorrenza e la sburocratizzazione amministrativa per le attività produttive si annuncia poco di nuovo. L’impulso a investimenti e produzione dato dal Pnrr rischia, pertanto, di spegnersi dal 2027, ovvero nel periodo successivo alla sua fine. Di fronte al ristretto vincolo di risorse aggiuntive nel bilancio pubblico è essenziale che il governo si concentri nel dare priorità agli interventi che rafforzano il potenziale produttivo del Paese rispetto a quelli a mero scopo elettorale.


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