L’elogio di Charlie Kirk scritto da Alexander Dugin si inserisce in una narrativa che fonde religione e politica, dove il martirio diventa strumento di mobilitazione e la “guerra globale” travalica i confini per trasformarsi in scontro culturale. Il commento di Pasquale Annicchino, professore presso l’Università di Foggia
Nelle scorse ore il noto politologo russo di orientamento conservatore Alexander Dugin ha pubblicato un elogio di Charlie Kirk, definito come un esempio di virtù cristiana e un martire nella lotta contro il Diavolo e gli altri nemici di Dio. Pochi giorni prima, in un altro post dedicato all’attivista statunitense vittima di omicidio, lo stesso Dugin aveva parlato di una “guerra globale” che si estendeva dallo Utah all’Ucraina. Una retorica che sembra suggerire un totale reframe narrativo, spostando le linee di faglia di confini statali e nazionali a quelli culturali e religiosi. In quella che sembra una mossa dai caratteri si ideologici, ma anche marcatamente politici. Come interpretare tutto ciò? Pasquale Annicchino, professore dell’Università di Foggia, si è reso disponibile per fornire un quadro della situazione a Formiche.net.
Come si può interpretare la commemorazione di Charlie Kirk redatta da Dugin?
Lo scritto di Dugin è sicuramente simbolico di per sé, ma assume ancora maggiore importanza se inserito nel contesto più ampio. Nelle stesse ore in cui Dugin pubblicava il suo scritto, il capo del Fondo russo per gli investimenti diretti Kirill Dimitriev (che ha anche rilanciato il documento dello stesso Dugin) ha pubblicato un post su X dove diffondeva un articolo a firma del metropolita Tikhon (Shevkunov), metropolita di Crimea e Simferopol e “guida spirituale” di Vladimir Putin, in cui veniva elogiato il contributo dato da Kirk alla cristianità.
Sta evidenziando una convergenza?
Una convergenza che è nei fatti. Poi, cosa sia successo per arrivare a questa convergenza, o chi l’abbia promossa, ad ora, non ci è dato saperlo.
Quale potrebbe essere lo scopo ultimo di un eventuale promotore di questa linea comune?
Questo lo può sapere soltanto l’eventuale promotore. Quel che è certo è che si nota una sinergia rispetto ad una lettura che è molto critica dell’internazionalismo liberale, dell’ordine internazionale in cui abbiamo vissuto dopo la Seconda guerra mondiale, che è una matrice di interpretazione della realtà.
Una sinergia intellettuale condivisa sia dal Cremlino che da una parte dell’opinione pubblica e dell’establishment statunitense. E che quindi potrebbe rappresentare un terreno comune su cui costruire un rapporto più solido tra Stati Uniti e Russia che vada oltre il contrasto “tattico” sul conflitto in Ucraina, ma che invece miri a delineare una nuova visione del mondo comune la Russia e gli Stati Uniti sono più vicini?
A questo riguardo erano già stati registrati dei segnali nella precedente amministrazione Trump. Come, ad esempio, la posizione “revisionista” sui diritti umani in chiave conservatrice assunta dall’allora segretario di Stato Mike Pompeo. Quando lessi il documento pubblicato nell’agosto 2020 dalla Commission on Unalienable Rights pensai subito, in base alle idee esposte, che più che a Washington il documento sembrava fosse stato scritto a Mosca. E anche nel documento di Dugin viene sottolineato come l’internazionalismo liberale secolare e le istituzioni internazionali siano il nemico numero uno, una posizione che trova punti di convergenza fortissimi fra il mondo conservatore statunitense, soprattutto quello evangelico-protestante (ma non solo), e la Chiesa ortodossa russa. Ovviamente non tutta l’agenda sociale e politica della Chiesa ortodossa russa è facilmente “esportabile” negli Stati Uniti. Ad esempio, un’idea come quella del Russkiy Mir, particolarmente rilevante riguardo alla questione ucraina non sembra avere una presa particolare nel contesto statunitense.
Si può dunque immaginare un possibile sfruttamento della dimensione religiosa da parte del Cremlino come uno strumento della sua politica estera?
Distinguere cosa sia politica da cosa sia religione non è sempre semplicissimo, soprattutto nella Federazione Russa dove la “sinfonia” tra i due mondi è ben sviluppata. Ci sono anche interpretazioni differenti su quale delle due dimensioni sia subordinata all’altra. Senza dubbio il vulnus ideologico causato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la cui ideologia reggeva la sua impalcatura politica, ha favorito un’integrazione ancora più forte tra l’aspetto religioso e quello statale in Russia. Una tendenza su cui il Presidente Putin ha deciso di investire molto. Motivo per cui non si può ignorare la rilevanza e l’influenza del pensiero teologico, che poi diviene ovviamente politico, della Chiesa ortodossa russa rispetto ad alcune azioni e iniziative della Federazione Russa. Per quel che riguarda la politica estera, vorrei però ricordare una cosa importante: la Russia non è sempre stata esportatrice netta, anzi.
A cosa si riferisce?
Nella fase finale del periodo sovietico e in quella immediatamente successiva al crollo dell’Urss, la Russia è un’importatrice di ideologia religiosa, e c’è un’influenza, soprattutto proveniente dal conservatorismo evangelico statunitense, anche nello sviluppo dell’ortodossia della Chiesa ortodossa russa. Pensiamo ad esempio all’aborto, alle questioni “pro-life”, o a quelle relative agli orientamenti sessuali, tutti temi che non erano centrali nella Chiesa ortodossa russa fino ad allora, mentre oggi sono di primaria rilevanza. In questo la Chiesa ortodossa russa è stata molto influenzata dagli sviluppi statunitensi in tal senso. Oggi, ovviamente, Mosca è tornata ad “esportare” la sua visione religiosa, anche attraverso la sua politica estera. Anche se, dallo scoppio del conflitto in Ucraina il suo soft power in questo senso sembra essere diventato meno attraente. Ma rimane ancora un fattore di rilievo.
Dove andrà a pesare particolarmente questo fattore?
Direi che questo aspetto ideologico peserà molto nelle istituzioni internazionali, dove si tenterà di promuovere un’idea nuova del mondo costruita su un ribaltamento del paradigma dell’ordine internazionale attuale, idea in cui il principio di non interferenza negli affari interni degli stati diventa molto più forte e quindi non si può intervenire su stati che fanno violazioni palesi e seriali dei diritti umani, accompagnata da una rilettura dei diritti umani dove i diritti dell’individualismo liberale retrocedono rispetto ad istanze maggiormente centrate sul ruolo dei poteri pubblici nella definizione di questioni morali. Il mio suggerimento è di fare attenzione in questo senso.