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Washington sfida l’influenza cinese nei porti strategici del mondo

Washington lancia un piano globale per ridurre l’influenza cinese nei porti strategici, fornendo incentivi a investitori occidentali e riesaminando i nodi marittimi critici. Il progetto punta a tutelare la supply chain e limitare i rischi di spionaggio o blocchi in caso di crisi

Che Pechino ambisca ad estendere il proprio controllo su una serie di porti siti in tutto il mondo non è certo un segreto. Non stupisce dunque che la Casa Bianca guidata da Donald Trump abbia sviluppato un ambizioso piano atto a ridurre l’influenza della Cina sulla rete portuale globale, aumentando al contempo il controllo occidentale su terminali considerati strategici.

Al centro della strategia, delineata a Reuters tre fonti a conoscenza del dossier, c’è la preoccupazione che in caso di conflitto Washington si trovi in svantaggio rispetto a Pechino per la dipendenza da flotte e infrastrutture straniere. Per evitare questa evenienza si sono concepite soluzioni apposite, come ad esempio il fornire incentivi a imprese statunitensi o occidentali per rilevare quote cinesi nei porti (con l’operazione di BlackRock sui beni portuali del gruppo di Hong Kong Ck Hutchison indicata come modello).

Gli Stati Uniti guardano con particolare attenzione agli asset cinesi sulla propria costa occidentale, oltre che a quelli in Grecia, Spagna, e nei Caraibi. In Grecia il porto del Pireo, considerato un nodo cruciale tra Europa, Africa e Asia, ha la società di gestione posseduta al 67% dal colosso statale cinese Cosco, già sulla “lista nera” del Pentagono per i legami con l’esercito cinese. In Iberia sono quelli di Madrid e Valencia i principali porti in cui Pechino controlla terminal container tramite concessioni. La preoccupazione di Washington riguarda anche i Caraibi, dove gli investimenti cinesi nel terminal giamaicano di Kingston rappresenterebbero uno dei maggiori rischi per la sicurezza Usa in America Latina, con timori del manifestarsi di “pratiche predatorie”, come le ha definite a marzo il segretario di Stato Marco Rubio. Negli Stati Uniti, Cosco partecipa alla gestione di terminal nei porti di Los Angeles e Long Beach.

Anche in Australia la Repubblica Popolare controlla il porto di Darwin, tramite il gruppo Landbridge. Ma il fondo statunitense Cerberus, fondato dall’attuale vice-segretario alla Difesa Stephen Feinberg, ha manifestato interesse per la struttura, dopo che il premier Anthony Albanese ha confermato la volontà di riportarne la proprietà sotto controllo nazionale.

L’amministrazione statunitense ha presentato una serie di misure per aumentare la scarsa presenza commerciale marittima americana nel mondo, anche incoraggiando la costruzione navale nazionale; inoltre essa sta cercando di ampliare l’accesso ai registri navali controllati dagli Stati Uniti e sta anche riesaminando i punti nevralgici marittimi globali per i rischi legati al trasporto marittimo.

Secondo il Kcs Group, Washington teme che Pechino possa usare il controllo delle infrastrutture marittime per spionaggio, vantaggi militari o per interrompere le catene di approvvigionamento in caso di crisi geopolitiche. La Cina respinge le accuse, sostenendo che la cooperazione nei porti avviene nel rispetto del diritto internazionale e che gli Stati Uniti strumentalizzano la “teoria della minaccia cinese” per spingere gli alleati a prendere posizione.

Il confronto si inserisce in un contesto di crescente rivalità: un rapporto del Council on Foreign Relations ha calcolato che, nell’agosto 2024, aziende cinesi detenessero partecipazioni in 129 progetti portuali nel mondo. Secondo stime della Us Navy, la capacità cantieristica della Cina è 230 volte superiore a quella americana, un divario che potrebbe richiedere decenni per essere colmato.

 


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