L’uccisione dell’attivista repubblicano Charlie Kirk riaccende i riflettori sul grandissimo tema della violenza politica americana. Solo tre mesi fa l’assassinio di una deputata democratica del Minnesota. Ora è tempo di abbassare i toni, altrimenti c’è il rischio di alimentare un’escalation. Conversazione con Mattia Diletti, docente di Scienza politica all’Università Sapienza ed esperto di politica statunitense
Settembre di sangue dall’altra parte dell’Oceano. L’uccisione di Charlie Kirk, figura di primissimo piano della galassia conservatrice americana, apre un nuovo capitolo drammatico nella già incandescente politica statunitense. Un evento che arriva a distanza di pochi mesi dall’assassinio di una deputata democratica del Minnesota e che riporta al centro il tema della violenza politica negli Stati Uniti, in un contesto di polarizzazione probabilmente senza precedenti. “Ormai ci troviamo di fronte a un clima di nevrosi da guerra civile negli Stati Uniti: la violenza politica è sempre più endemica. E questo è molto preoccupante”. Lo dice sulle colonne di Formiche.net Mattia Diletti, docente di Scienza politica all’Università Sapienza ed esperto di politica statunitense.
Professore, che cosa significa la morte di Charlie Kirk per la politica americana?
La morte di Kirk è significativa per il nome e per il profilo che aveva saputo costruirsi, ma non sorprende che si tratti di un omicidio politico. Da anni assistiamo a episodi che dimostrano quanto il clima di violenza sia ormai strutturale. Solo tre mesi fa è stata uccisa una deputata democratica del Minnesota con suo marito. In una società così divisa, questo è il risultato di un linguaggio politico incendiario che non trova sbocchi di legittimazione reciproca.
Lei parla di un clima che si autoalimenta. In che modo questo accade?
È quasi matematico: in una società così polarizzata, il linguaggio di Trump ha avuto l’effetto di incendiare ulteriormente gli animi. Ma non si tratta solo di lui: il sistema politico americano nel suo complesso non riesce a trovare una forma di armistizio. Invece di un riconoscimento reciproco, si assiste a una sorta di guerra civile permanente.
Perché, secondo lei, il bersaglio è stato proprio Charlie Kirk?
Ci sono due fattori. Da un lato, Kirk è un simbolo: ha saputo inventare una formula comunicativa capace di connettere Trump con giovani elettori conservatori non politicizzati. È quindi un portatore di contenuti che lo rendono visibile e centrale. Dall’altro lato, esiste un meccanismo che conosciamo da decenni, da Lennon in poi: la violenza contro le celebrità diventa per alcuni individui un modo di affermare se stessi. Se fosse confermato questo movente, ci troveremmo di fronte all’ennesima saldatura tra follia individuale e clima politico avvelenato.
Che reazioni si aspetta da parte dei repubblicani?
Mi aspetto che i repubblicani aggancino subito l’episodio al frame di “law and order”. Potrebbe esserci una spinta verso l’idea di rafforzare i poteri della presidenza, magari con richieste di mobilitazione della Guardia nazionale. È un terreno che la destra americana ha già battuto, e questo caso rischia di diventare un catalizzatore.
Da parte democratica assistiamo a reazioni eterogenee. Cosa prevede?
Dal fronte democratico avremo una risposta istituzionale, con toni più tradizionali. Tuttavia non mancheranno voci – soprattutto tra i supporter più radicali online – che diranno che Kirk “se l’è cercata”. Purtroppo la polarizzazione americana produce anche questo tipo di gazzarra da hooligans digitali.
Esiste concretamente una possibilità di raffreddamento del clima politico statunitense?
La mia paura è che non si arrivi mai a quel punto. Il primo che dovrebbe abbassare i toni è il presidente, con un gesto simbolico di tregua comunicativa. Ma al momento non si intravede un’iniziativa in questa direzione.
Anche in Italia e in Europa il clima politico è molto polarizzato. Ma non a questo livello.
Il paragone più vicino per quanto riguarda l’Italia resta quello degli Anni di Piombo. Oggi da noi il clima politico è acceso, ma non si traduce in violenza di questo livello anche perché non c’è un accesso diffuso alle armi. Negli Stati Uniti, invece, è una vera e propria nevrosi da guerra civile che si ripete ciclicamente e che sembra ormai parte integrante del sistema politico.