La presidente della Commissione nel suo discorso alla Plenaria di Strasburgo ha dimostrato che l’Europa può avere un leader. Per la prima volta Ursula ha fatto emergere con chiarezza quanto manchi all’Europa un afflato identitario. L’analista Domenico Giordano legge in filigrana le parole di Ursula von der Leyen
“Piena sufficienza, direi un sette pieno come voto. Non tanto per forma e postura, ma più che altro per i contenuti”. Il discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen arriva in un momento delicatissimo per il Vecchio continente. L’Europa è stretta nella morsa di crisi che ne minacciano la coesione: la guerra in Ucraina, la nuova fiammata di tensioni in Medio Oriente, la violazione dello spazio aereo polacco da parte della Russia. In questo contesto, le parole della presidente della Commissione europea non potevano limitarsi alla retorica: serviva visione, serviva identità. Ne abbiamo parlato con Domenico Giordano, consulente e analista politico, che ha letto tra le righe del discorso di Ursula, cogliendone tanto i punti di forza quanto i limiti.
Giordano, lei ha assegnato un voto “7” al discorso di Ursula von der Leyen. Su cosa si fonda questa valutazione?
Il voto non riguarda la postura, le pause o la teatralità, che pure hanno un peso, ma il contenuto. Per la prima volta Ursula ha fatto emergere con chiarezza quanto manchi all’Europa un afflato identitario. Ha usato parole come indipendenza, libertà, potere. Termini che appartengono a un linguaggio patriottico, quasi nazionalista, e che finora erano rimasti estranei al lessico delle istituzioni europee.
Questo “afflato identitario” quanto è decisivo per affrontare le sfide globali?
È decisivo. Non basta guardare alla geopolitica: penso all’ambiente, alla transizione tecnologica, all’energia. Senza un’identità comune non c’è forza per affrontare le sfide. L’Europa è chiamata a unirsi, a combattere, a riappropriarsi del proprio ruolo. Ursula lo ha detto chiaramente: basta con le divisioni e con gli interessi di piccolo cabotaggio. Perché fuori ci sono attori pronti a marginalizzarci, dal punto di vista economico, energetico e tecnologico.
Lei ha apprezzato l’uso delle storie personali che ha portato la presidente della Commissione come esempi della dedizione alla causa europea. Perché le considera rilevanti?
Perché hanno dato un volto all’Europa. Ursula ha citato Sasha, l’undicenne ucraino rapito dai russi e salvato dalla nonna, e un vigile del fuoco greco che con altruismo ha salvato un villaggio dalle fiamme. Sono testimonianze vive dell’identità europea. È così che si rende tangibile cosa significhi essere parte di una comunità.
In che misura questo discorso parla anche al contesto esterno, dal Medio Oriente alla Polonia, passando chiaramente per l’Ucraina?
In Medio Oriente si gioca un equilibrio che coinvolge inevitabilmente anche noi. Ursula, pur con cautela, ha usato un linguaggio da leader: ha preso posizione anche sul tema delicato delle sanzioni a Israele, ma soprattutto ha detto a chiare lettere che la situazione a Gaza è intollerabile e deve finire. Così come intollerabile è quanto accade in Ucraina e gravissimo è l’episodio polacco. Tutto questo per ribadire una linea, che diventa una pre-condizione: o parliamo con voce unica, o non conteremo più.
Qual è la cifra comunicativa di Ursula rispetto ad altri leader europei, come Giorgia Meloni?
Von der Leyen non ha le espressioni iper-comunicative di Meloni, ma ha dimostrato che l’Europa può avere un leader. Ha richiamato parole che noi europei avevamo dimenticato: “fight”, combattere, avere coraggio. È un linguaggio largamente condivisibile, che prova ad abbracciare sensibilità diverse e talvolta lontane. La sintesi vera non è tra esigenze contrapposte, ma tra le diverse anime identitarie dell’Europa. Se non marciamo uniti, non ci sarà futuro per nessuno.