Nello Sco convivono esigenze diverse. Ma quel che più conta è la sua logica inclusiva, che si contrappone all’attuale modo d’essere delle strutture occidentali. I Paesi protagonisti che ne fanno parte oggi rappresentano circa il 40% della popolazione del pianeta e un quarto del Pil mondiale. Portatori di un metodo, esclusa la Russia di Putin, che è del tutto opposto a ciò che accade in Occidente. L’analisi di Gianfranco Polillo
La novità di questo scorcio di fine estate 2025 è il radicarsi, nelle relazioni internazionali, di una profonda asimmetria. Che l’incontro, nella città cinese di Tianjin, della Shanghai Cooperation Organisation – Sco renderà drammaticamente evidente. Da un lato, un Occidente sempre più diviso e lacerato; sul fronte opposto le ambizioni manovriere dei suoi nemici storici: quella Russia e quella Cina che, nel corso del ‘900, avevano più volte tentato di imporre la propria ideologia su crescenti parti del pianeta.
Le divisioni dell’Occidente non riguardano solo Stati Uniti ed Europa. Ma si estendono al Pacifico, coinvolgendo sia il Giappone che l’India. All’interno dell’Europa, poi vi sono Paesi come l’Ungheria e la Slovacchia che tifano per l’Oriente e Paesi, come la Turchia, che giocano una doppia partita. Sul fronte opposto, invece, si punta su una diversa armonia. Non è detto che l’obiettivo sia a portata di mano, ma la strategia, almeno questa, è chiara e definita.
È soprattutto la Cina l’artefice di questa politica. Capace di avviluppare anche la Russia nella rete di “un’amicizia senza limiti”. Vani e forse ingenui tutti i tentativi di operare finora una qualsiasi divisione, nella speranza, seppure a parti rovesciate, di replicare il successo di Henry Kissinger dell’inizio degli anni ‘70. Oggi i due Paesi, benché in passato su opposte barricate militari ed ideologiche, sono tra loro complementari. Al punto che gran parte della sopravvivenza economica della Russia dipende dall’apporto cinese. Oltre 100 miliardi di dollari gli acquisti di gas e petrolio russo, dagli inizi della guerra in Ucraina.
Ma ugualmente importante è il contesto in cui questa linea politica si sviluppa. A partire dall’India che Donald Trump, in qualche modo, ha spinto tra le braccia degli avversari dell’Occidente, dopo aver imposto dazi del 50% sulle esportazioni di quel Paese. In teoria una buona azione, considerato il volume delle importazioni da parte di quest’ultima di gas e di petrolio russo, ad un prezzo scontato, e per un importo inferiore solo a quello cinese. Ma nei fatti uno dei tanti aspetti della politica contraddittoria del Tycoon. Che ad Anchorage riceve Putin con tutti gli onori, accettando di buon grado di cambiare la propria agenda politica sull’Ucraina. Per poi punire chi si rende responsabile solo di un peccato veniale.
La Sco va guardata da vicino, per comprenderne la valenza. Era stata costituita, agli inizi degli anni ‘90, da cinque Paesi: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Con successivi allargamenti, ed un crescente profilo militare, entravano a farvi parte: Uzbekistan, India, Pakistan, Iran e Bielorussia. Altri Paesi vi aderivano seppure con la semplice qualifica di osservatori: Mongolia, Bahrein ed Afganistan. Mentre ad altri 13 veniva riconosciuto il titolo di partner di dialogo: Armenia, Azerbaigian, Turchia, Kuwait, Egitto, Qatar, Arabia Saudita , Emirati arabi, Maldive, Sri Lanka, Cambogia, Mianmar e Nepal. Per una forza complessiva composta da 26 Nazioni. Gli stessi Stati Uniti nel 2006 avevano chiesto di essere ammessi come “osservatori”, ma la loro richiesta era stata respinta.
Nello Sco convivono esigenze diverse. Ma quel che più conta è la sua logica inclusiva, che si contrappone all’attuale modo d’essere delle strutture occidentali. Dell’organizzazione, seppure a vario titolo, fanno parte Paesi con un passato burrascoso. Si pensi agli scontri militari tra la Cina e l’India. O tra quest’ultima e il Pakistan. Oppure al lungo e sanguinoso conflitto tra armeni ed azeri. Passato che non ha impedito ai relativi Paesi di sedere intorno ad uno stesso tavolo. Al quale è presente addirittura un Paese Nato, come la Turchia, la cui importanza strategica – copertura del confine orientale dell’Europa – è di tutta evidenza. Questa volta poi, sarà presente, per la prima volta, anche Kim Jong Un, il dittatore nord coreano, per assistere alla parata celebrativa per l’anniversario della conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Risultati di questa portata possono essere ottenuti solo grazie ad una tessitura paziente delle relazioni internazionali. Da parte di protagonisti che oggi rappresentano circa il 40% della popolazione del pianeta e un quarto del Pil mondiale. Portatori di un metodo, esclusa la Russia di Putin, che è del tutto opposto a ciò che accade in Occidente dove, per riprendere le parole del segretario generale dell’Onu, Guterres, si osservano “nuove forme di politica che a volte sono difficili da capire, che a volte assomigliano più a uno spettacolo che a seri sforzi diplomatici, e in cui a volte si mescolano affari e politica”. Fin troppo facile individuare il relativo bersaglio.
A pochi mesi dal suo insediamento Donald Trump ha seminato divisioni nel blocco dei Paesi che supportava la leadership americana. Lo ha fatto nei confronti dell’Europa, ma non ha esitato a fare altrettanto nei confronti dei Paesi dell’Indo-pacifico. A partire dall’India, ma non certo risparmiando il Giappone e la stessa Corea del Sud, anch’essa colpita da dazi del 15%. Non contento, ha anche espresso il desiderio di recarsi in visita presso la Corea del Nord, introducendo ulteriori elementi di incertezza e di sconcerto nella postura complessiva della politica estera americana.
Le sue azioni sul piano interno, rivolte ad estendere a dismisura i poteri della Casa Bianca, accentuano le preoccupazioni. Neutralizzando i check and balance, che caratterizzano la realtà costituzionale americana, rendono più difficili eventuali correzioni in corso d’opera, caricando di attese le elezioni di midterm, che in tal modo, si snaturano fino al punto da apparire come una sorta di giudizio di Dio. Nel frattempo, tuttavia, i fallimenti sul piano internazionale si susseguono. Mentre su quello interno le resistenze cominciano a farsi sentire. Difficile prevedere come andrà a finire. Ma certo è che, come nel 1929, la difesa delle sorti dell’Occidente richiederebbero qualcosa di diverso. Nell’interesse degli stessi Stati Uniti.