L’esperto diplomatico, quando era vicesegretario della Nato, fu presente alle discussioni dopo l’attacco alle Torri Gemelle che coinvolsero gli alleati Nato nella solidarietà agli Usa, attaccati dal terrorismo internazionale: “Oltre all’art. 5 bisognerebbe cercare un consenso internazionale come un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di una serie di Paesi che possa firmare un trattato per garantire la frontiera Ucraina”
Come sbloccare l’impasse in Ucraina dopo il vertice in Alaska? Secondo l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, già vicesegretario italiano della Nato, accanto all’art. 5 del Trattato si potrebbe ipotizzare una seconda azione, come un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di una serie di Paesi che firma un trattato per garantire la frontiera Ucraina. La mossa, spiega a Formiche.net, potrebbe essere una soluzione applicabile a Kyiv. In questa conversazione ricorda ciò che l’Alleanza atlantica fece dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre.
Che cosa significherebbe applicare all’Ucraina l’art. 5 del Trattato Nato?
L’articolo 5 non è, come molti pensano, un obbligo automatico di intervento militare coordinato nel caso in cui un Paese membro venga attaccato. Ma dice che se un Paese membro viene attaccato, gli altri devono concertare tra di loro e devono decidere in che maniera far fronte alla minaccia, quindi c’è una gamma di possibilità molto ampia. Naturalmente è chiaro che, anche da un punto di vista psicologico, se un Paese viene attaccato gli altri sentono la necessità di dover intervenire perché sono membri della stessa alleanza.
Cosa cambia nei confronti di un Paese che non è membro dell’alleanza?
Molto dipenderà, a mio parere, dalle condizioni internazionali di quel momento e non possiamo prevedere quali saranno. Mi spiego: un conto è immaginare adesso l’assistenza della Nato, ma se dovesse accadere fra 4 o 5 anni quale sarà il contesto di allora? Come saranno incoraggiati i Paesi europei e gli americani a intervenire militarmente? Cercheranno un compromesso invece di un’azione militare? È difficile fare previsioni in questo senso, per questa ragione è una potenzialità che non copre completamente il problema ucraino.
L’art.5 andrebbe affiancato da un’altra iniziativa?
Secondo me sì, ovvero cercare un consenso internazionale (diciamo alla coreana) come un Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di una serie di Paesi che firmano un trattato per garantire la frontiera Ucraina: penso che questo francamente chiuderebbe le cose. Non dimentichiamo che oggi ci troviamo in una situazione psicologica in cui l’opinione pubblica pensa che la Russia non si sa mai cosa potrebbe fare in futuro: è questa un’immagine che soprattutto i Paesi nordici manifestano. Effettivamente la Russia sta diventando un’economia di guerra e non è facile smantellare questo quadro. Costruire i cannoni e poi riconvertire il tutto per costruire rubinetti per l’acqua non è facilissimo. Però è anche vero che in realtà se vogliamo essere veramente corretti dal punto di vista politico, l’aggressione russa all’Ucraina avviene non tanto secondo me perché Kyiv poteva aderire alla Nato, quanto perché eravamo nel contesto della vecchia Unione Sovietica.
Ovvero?
Quindi di un contesto in cui l’Ucraina era presente da almeno due anni e che stava sfuggendo completamente all’influenza di Mosca. In Russia hanno visto questo Paese progressivamente avvicinarsi all’Occidente in varie maniere e hanno deciso che era il momento di bloccare questo processo perché l’Ucraina doveva essere nella visione russa più simile alla Bielorussia, un Paese sempre nello spazio sovietico. Se si arriverà ad una pace, concordata seriamente questa volta, io non credo che ci sarà un’altra guerra. Non vedo perché la Russia dovrebbe per forza attaccarla dopo cinque anni, non avrebbe molto senso. Credo che la cosa più importante sia chiudere bene questa guerra, invece occuparsi della prossima aggressione russa è meno importante.
Quale il nesso dell’art.5 con l’attentato dell’11 settembre?
In Italia sono l’unico testimone diretto, perché ero accanto all’allora segretario generale della Nato, l’ex ministro della Difesa britannico George Robertson. Insieme abbiamo vissuto l’intero percorso di questa vicenda e quindi questa testimonianza ha un qualche valore storico. Quando ci fu l’attacco alle due torri di New York alla Nato avemmo l’impressione che questo potesse essere l’inizio di una serie di atti terroristici che avrebbero colpito anche l’intera alleanza. In quel preciso contesto politico sembrava una cosa ragionevole, tanto è vero che si decise all’epoca che il Consiglio Atlantico, che è l’unico organo decisionale della Nato, dovesse trasferirsi dal quartier generale in un luogo segreto nei dintorni di Bruxelles in cui potesse continuare ad agire anche anche in caso di crisi: per fortuna non ci furono altri attacchi diretti oltre alle due torri. Ma il punto politico restò.
Con quali conseguenze, anche teoriche e di visione, sulle azioni degli alleati?
Il segretario generale ritenne che l’attacco alle Torri non riguardava la Nato perché avvenuto in territorio americano, ma il direttore delle questioni di difesa, Herbert Buckley, sollevò un dubbio: effettivamente l’attacco aveva riguardato gli Stati Uniti d’America ma, in virtù del concetto strategico della Nato che era stato approvato nel 1999, in occasione del vertice di Washington ospitato da Bill Clinton per il 50mo anniversario della Nato, la prospettiva era mutata. Il nuovo concetto strategico riguardava un passaggio nevralgico: la Nato si sarebbe dovuta anche occupare di contrastare il terrorismo internazionale, frase che fino a prima di quel vertice non compariva in nessun documento ufficiale. Per cui, quando fu chiaro che la mano dell’attentato era quella di Osama Bin Laden dall’Afghanistan, fu evidente che si trattava di terrorismo internazionale. Allora ricordo bene che il Segretario generale convocò l’ambasciatore americano Nick Burns, io ero presente, e gli segnalò la cosa.
E come reagì il diplomatico americano?
Inizialmente scosse la testa, ma dopo che riferì a Washington la nuova prospettiva, l’allora Presidente americano ritenne molto utile la decisione dell’Alleanza di fornire un supporto, politico e concreto. “Noi ci stiamo. Però bisogna che ci venga presa questa decisione”, risposero gli Usa. Robinson che era un decisore molto attivo, appartenente ad una categoria di inglesi che oggi mi sembra un po’ scomparsa, disse che la Nato non poteva restare inerte se effettivamente questo era un atto di terrorismo internazionale equivalente ad un’aggressione. Dopo due giorni, era il 15 settembre, trascorse un’intera giornata a telefonare a tutti i capi di governo di tutti i Paesi membri per illustrare loro l’iniziativa presa e convinse tutti.
Cosa accadde in concreto?
In primis gli Stati Uniti ricevettero un chiaro appoggio politico dalla Nato, che non fu secondario dal momento che tutte le piazze d’Europa si riempirono di manifestanti solidali con l’America aggredita dal terrorismo internazionale. In seguito dal punto di vista materiale furono prese due iniziative che forse nessuno più ricorda. La Nato decise di concedere agli Stati Uniti gli Awacs, aerei di ricognizione molto sofisticati di stanza in Olanda, visto che gli Stati Uniti stavano sguarnendo il loro territorio perché impegnati in tutto il mondo nell’abbattere Osama Bin Laden. Per cui in quei giorni gli Awacs della Nato coprirono il territorio degli Stati Uniti, aiutandoli a liberare risorse. Potremmo definirlo in vari modi, ma fu un atto davvero concreto. In secondo luogo fu avviata nel Mediterraneo un’operazione navale di nome Active Endeavour: per la prima volta un’operazione navale alleata con tutti i Paesi membri venne messa in atto per reprimere il traffico di armi e togliere ossigeno alle azioni terroristiche. Questo è l’articolo cinque come venne applicato nel 2001.