Il vertice Sco di Tianjin segna il culmine della strategia cinese per costruire un blocco alternativo all’Occidente, intrecciando Russia, India e mondo islamico. Non frutto del caso, ma di un disegno di lungo periodo di Pechino per sfruttare divisioni e consolidare la propria leadership globale
Il vertice di Tianjin, che riunisce oltre venti leader stranieri e dieci capi di organizzazioni internazionali, non è soltanto un altro incontro della Shanghai Cooperation Organisation. Sempre di più appare come il culmine di un processo che rischia di consegnare a Xi Jinping il ruolo di convenor de facto di un blocco che si estende da Minsk a Mumbai, da Mosca a Teheran. La presenza di Narendra Modi, Vladimir Putin, Masoud Pezeshkian, Shehbaz Sharif, Alexander Lukashenko, Recep Tayyip Erdoğan e dei presidenti centroasiatici non è una semplice coincidenza di calendario: è il frutto di un riallineamento geopolitico che solleva una domanda cruciale. La storia ha semplicemente offerto a Xi un’opportunità irripetibile o Pechino ha lavorato con cura per costruire le condizioni che vediamo oggi?
È facile sostenere che la fortuna sia stata dalla parte della Cina. La guerra in Ucraina, che ha spinto Mosca tra le braccia di Pechino, è stata lanciata dal Cremlino e non da Xi – anche se pochi giorni dopo una visita di Putin a Pechino. Le tensioni tra India e Stati Uniti, aggravate da dispute commerciali e divergenze sull’ordine globale, hanno radici complesse; eppure, le impronte cinesi sull’attentato di Pahalgam e sulla guerra per procura tramite il Pakistan sono visibili, trascinando l’India nella trappola di Trump. La crescente solidarietà islamica intorno all’Organizzazione della cooperazione islamica ha la propria dinamica storica, ma la Cina vi ha messo del suo, unendo persino Hamas e altri gruppi palestinesi in una dichiarazione anti-Israele a Pechino. Con l’Iran non si è limitata al sostegno politico, lo ha aiutato militarmente e, insieme a Mosca, ha mantenuto in vita il regime. In questo racconto Xi sembra più beneficiario delle circostanze che attore principale, capace di raccogliere i cocci di un sistema internazionale fratturato.
Eppure, le prove suggeriscono un disegno accurato più che un caso. La Cina ha costantemente protetto Mosca dall’isolamento, offrendo copertura diplomatica, ampliando i legami commerciali e trasformando l’aggressione russa in Ucraina in una battaglia di multipolarismo contro l’egemonia occidentale. Non spettatore, ma abilitante: Pechino ha reso possibile la guerra di Putin, acquistando miliardi di dollari di petrolio e gas e costruendo oleodotti per ridurre la propria dipendenza dallo Stretto di Malacca.
Con l’India la strategia è stata più sottile ma altrettanto calcolata. Pechino ha sondato a lungo le crepe nei rapporti con Washington, sfruttando la sensibilità di New Delhi per la sovranità e la sua ricerca di autonomia strategica. L’attacco di Pahalgam ha posto Modi davanti all’obbligo di reagire, dato il peso della questione del Kashmir e la sua linea dura sul terrorismo. La Cina, attraverso il Pakistan e con l’appoggio della Turchia, ha fornito armi, intelligence e una campagna globale d’influenza per indebolire la posizione indiana, mobilitando anche asset anti-Modi finanziati dal Qatar e legati alla Fratellanza musulmana. Nessuna democrazia ha soccorso l’India, mentre la Russia, ormai ridotta a vassallo di Pechino, è rimasta in silenzio.
Abile è stata anche la mossa sugli Stati Uniti. Lusingando l’ego di Trump e usando Asim Munir come cavallo di Troia a Washington, Pechino è riuscita a creare divisione tra India e Usa, a ottenere sanzioni tariffarie su New Delhi mentre consolidava i propri rapporti commerciali con l’America. Allo stesso tempo ha attratto l’India attraverso Mosca, sfruttando il vertice di Kazan. Sul confine himalayano ha mostrato forza, ma parallelamente ha offerto partnership economiche in sede Sco e Brics. Con le voci di un Trump intenzionato a rinunciare al summit del Quad, Pechino ha segnato un altro punto, mentre spingeva il Pakistan a offrire agli Stati Uniti terre rare, pur sapendo della fragilità delle miniere di Baluchistan e Waziristan e del fallimento del Cpec.
Lo stesso schema vale per Israele. Presentandosi come paladino della causa palestinese e partner del mondo islamico, la Cina ha guadagnato credito nell’Oci e ha cercato di indebolire i legami di Israele con India, Golfo e Occidente. Sostiene Hamas, gli Houthi e l’intera costellazione di proxy iraniani, direttamente e indirettamente. Ovunque sorga un’architettura a guida Usa – dall’I2u2 al Quad – Pechino mira a dividerla e a spingere gli attori verso la propria sfera. Con Israele punta all’isolamento, con l’India a legarla a sé, accrescendo la sua dipendenza. L’obiettivo è chiaro dal G20 indiano del 2023 e dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele: destabilizzare l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec). La via del cotone non sostituirà mai la via della seta.
Nonostante la superiorità militare sulla carta, Xi condivide l’intuizione che Shinzo Abe ebbe già nel 2007: il tallone d’Achille della Cina è il confine terrestre con l’India. Cooptare New Delhi e tenerla impegnata altrove permette a Pechino di espandersi globalmente. “Tieni i tuoi nemici più vicini”: così va letta anche la regia del colpo di Stato in Bangladesh, sostituendo l’alleata indiana Sheikh Hasina con un mix di islamisti e accademici presentabili all’Occidente.
Non si tratta dunque di un accidente fortunato, ma del risultato di una lunga campagna. Xi Jinping ha cercato di costruire un polo alternativo, intrecciando la disperazione russa, la cautela indiana e i risentimenti del mondo islamico. Il vertice di Tianjin sarà celebrato come un trionfo del multipolarismo e della diversità culturale. La realtà, però, è che esso rappresenta il frutto di anni di sforzi cinesi per sfruttare divisioni, alimentare malcontenti e raccogliere sotto l’ombrello di Pechino stati disparati ma accomunati dall’opposizione all’Occidente.
La storia può aver fornito la materia prima, ma è Xi ad averne orchestrato la costruzione. La vera incognita è se questo nuovo blocco saprà resistere nel tempo o se resterà solo una fragile coalizione fondata più sul risentimento verso l’Occidente che su una visione condivisa di futuro. La palla, oggi, è nel campo di Donald Trump.