Skip to main content

Copia privata, quando il fine non giustifica il mezzo. L’opinione di Monti

Lo sviluppo tecnologico ha scardinato il sistema di retribuzione dell’epoca precedente alla nostra, perché lo streaming si è sostituito alla detenzione materiale del prodotto culturale. Sarebbe necessario introdurre dei nuovi sistemi che sì, tutelino gli artisti ma con logiche più moderne

Negli ultimi mesi sono state numerose le testate giornalistiche che hanno dedicato un approfondimento al tema della copia privata, sottolineandone, in particolar modo, la dimensione anacronistica e criticando apertamente il ministero della Cultura che pare abbia intenzione di estendere lo strumento.

Per approfondire la questione, è necessario in primo luogo chiarire meglio alcuni aspetti, anche perché il tema, sebbene recente in anni-uomo, appartiene ad un’epoca tecnologicamente precedente la nostra.

La vicenda inizia quando la fruizione culturale, e in particolare la fruizione di contenuti audiovisivi, era ancora fortemente legata a supporti fisici, sia analogici che digitali. Come qualcuno ricorderà, in quell’epoca, chi comprava un album musicale o un film, si portava a casa un supporto (tendenzialmente Cd o Dvd), che ne consentiva la fruizione. Allora era dunque abitudine fare una copia di tali contenuti per poterne fruire anche in altri device. Chi acquistava il Cd poteva, ad esempio, avere piacere ad ascoltarlo anche attraverso i primi dispositivi Usb.

In questo contesto emergeva dunque la necessità di tutelare gli interessi economici degli artisti aventi diritto ad un compenso per tali copie. Questa esigenza, tuttavia, confliggeva con le potenzialità concrete, perché sarebbe stato del tutto impossibile monitorare il numero di copie “legali” che chi aveva comprato quel Cd avrebbe fatto una volta tornato a casa propria.

Fu così stabilito che, per garantire un corretto flusso monetario, i produttori, gli importatori e i distributori di supporti che potevano essere utilizzati per realizzare delle copie private avrebbero dovuto versare un compenso alla Siae, soggetto chiamato a riscuotere il compenso e ripartirlo ai legittimi beneficiari.

Si trattava di un mondo in cui i proventi dell’audiovisivo erano prevalentemente derivanti dalla vendita di Cd e Dvd. Questo strumento aveva quindi una grande rilevanza per il mercato, perché ogni copia privata corrispondeva ad una copia non venduta. Già in origine erano presenti delle aberrazioni: Cd e altri supporti, infatti, erano utilizzati anche per scopi del tutto diversi, come il salvataggio di grandi file di testo, o il salvataggio di foto e video personali realizzati autonomamente, e quindi questo maggior costo (che dai produttori veniva ovviamente traslato fino ai consumatori finali) si basava sulla mera possibilità che uno di quei supporti venisse utilizzato per gli scopi per i quali gli artisti avrebbero dovuto percepire un compenso.

Non si tratta di una critica. È la stessa Siae a dichiarare, sul proprio sito, che “Il compenso per Copia Privata è un importo forfettario per compensare gli autori e tutta la filiera dell’industria culturale della riduzione dei loro proventi dovuta alle copie private di opere protette dal diritto d’autore. L’entità del compenso tiene conto del fatto che sui supporti si possa registrare anche materiale non protetto dal diritto d’autore (le opere di pubblico dominio)”.

Pur non essendo affatto esente da critiche, quindi, il compenso per copia privata è in ogni caso entrato nelle vite, e nelle tasche, dei cittadini italiani, generando nel tempo una quota sempre più importante dell’intero flusso monetario raccolto e gestito dalla Siae. Una ricostruzione realizzata da DDay.it da dati di bilancio Siae evidenzia come tale “importo forfettario” abbia prodotto, tra il 2013 e il 2024, un flusso monetario pari a circa 1,4 miliardi di euro: circa 120 milioni di euro annui con cui i cittadini, di fatto, sostengono la Siae nella remunerazione degli artisti.

Ciò che fa riflettere è che, nello stesso intervallo temporale, non solo si sono accumulati compensi sempre più consistenti, perché anno dopo anno, anche le iniziali incongruenze sono divenute sempre più significative, sino a divenire evidentemente ingombranti.

Lo sviluppo tecnologico, infatti, ha del tutto modificato il modello di fruizione di contenuti audiovisivi, e oggi una sempre maggiore quota di persone adotta sistemi in streaming per la visione, senza detenere in alcun modo il prodotto culturale, ma avendo accesso ad esso in una modalità multipiattaforma. In altri termini, oggi si ha la possibilità di guardare una serie su Netflix, o di sentire un brano su Spotify e lo si può fare da Pc, da Tv, o da Smartphone. Realizzare una copia per ottenere un tale risultato è un processo troppo oneroso per ottenere un obiettivo che ho già raggiunto. Ci sono sicuramente dei casi in cui una persona può essere interessata a farlo, anche per ragioni personali (registrare un film disponibile ancora per poco su una piattaforma), ma si tratta di ipotesi del tutto marginali rispetto al naturale utilizzo delle piattaforme.

Si tratta di un processo che non solo il Comitato Consultivo conosce bene, ma che mostra anche di saper bene interpretare, perché nello schema di consultazione che si è da poco concluso, tra i supporti per i quali è previsto il compenso risultano anche le soluzioni cloud, di fatto generando, insieme ad altre condizioni, quel clima che si è tradotto in una serie di comunicati da parte di quasi tutte le associazioni di categoria, con i quali tali soggetti prendono formalmente le distanze dalle intenzioni del ministero.

Nella sua dimensione più semplice, quindi, l’evoluzione del compenso per la copia privata è divenuto nel tempo una misura economica che trasferisce alla cultura i proventi di un maggior costo sostenuto dai consumatori in ambito tecnologico. Con le dovute proporzioni, è quanto accaduto quando il costo del Canone Rai è stato inserito all’interno dei costi dell’energia.

È evidente, dunque, che questo strumento risulta fallato, sia in logica che in applicazione, ma al contempo, ed è questa forse una riflessione che manca all’interno dell’attuale dibattito, è uno strumento che garantisce, in un momento molto particolare per gli artisti, un flusso di denaro a sostegno di un settore che ha vissuto (soprattutto in ambito musicale) profondi cambiamenti non solo nei modelli di fruizione, ma anche nei modelli di retribuzione.

Se dunque è corretto predisporre delle tutele economiche per gli artisti, è possibile sviluppare delle logiche più coerenti con i nostri tempi, rendendo tale contributo volontario, e fornendo a fronte di tale maggior costo dei benefici per i consumatori finali. Oppure intervenendo sui compensi riconosciuti per gli ascolti o le visioni online, avviando una trattativa con le piattaforme mediante la quale queste ultime, riconoscendo una donazione minima alla Siae, possono accedere a dei crediti fiscali, o ancora stabilendo che i proventi derivanti da alcune inserzioni pubblicitarie debbano essere in quota parte destinate ad un fondo per lo sviluppo e la tutela dei prodotti culturali.

Le strade possibili sono tante, e vanno chiaramente analizzate con calma, prevedendo, sin da subito, una commissione interministeriale che possa studiare la riformulazione di questo strumento.

Perché è chiaro che difficilmente il ministero potrà rinunciare a questo flusso monetario, ma non possiamo chiedere a chi compra un frigorifero di pagare un prezzo più alto per sostenere le coltivazioni locali.


×

Iscriviti alla newsletter