Secondo le Nazioni Unite la quantità di macerie della striscia di Gaza equivale a 13 piramidi egiziane. Tra israeliani e palestinesi regge intanto sempre più a fatica il cessate il fuoco della prima fase del piano Trump. E che per il presidente turco Erdogan non é un affatto un piano di pace. L’analisi di Gianfranco D’Anna
A Gaza dietro la kermesse hollywoodiana della pace in modalità simil Nobel con Trump protagonista assoluto, continua ad aleggiare lo spettro della guerra. Per quanto sia stato difficile raggiungere un cessate il fuoco, che ha portato alla liberazione degli ostaggi israeliani e al rilascio dei prigionieri palestinesi, il percorso verso la pace e l’eventuale ricostruzione sarà lungo e molto impervio. Molte cose devono ancora essere risolte. I motivi di scetticismo sono molteplici. Più che la devastazione e i lutti ciò che resta da rimuovere é soprattutto il terribile odio reciproco.
Timori sottolineati dal presidente francese Macron che ha rimarcato come persista “un rischio di attacchi terroristici e di destabilizzazione a Gaza da parte di Hamas. Non si smantella un gruppo terroristico con migliaia di combattenti, tunnel e ogni tipo di armamenti dall’oggi al domani”. Ancora più esplicito il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majid al Ansari, che in una intervista all’emittente statunitense Fox News, ha dichiarato: “Dobbiamo essere realisti: questa é stata una guerra durata due anni ma i suoi effetti continueranno per decenni”.
Trump ha colto l’occasione per dire alla Knesset, il parlamento israeliano, che “non é solo la fine di una guerra, é la fine di un’era di terrore e morte”, omettendo però di dire cosa teme possa succedere all’indomani della liberazione degli ostaggi israeliani. Il the day after di Gaza angoscia tutti e dietro le quinte delle auto celebrazioni del tycoon, i timori dell’intelligence americana ed inglese riguardano in particolare le reali intenzioni del Premier israeliano Benjamin Netanyahu che non ha voluto metterci la faccia, al cospetto dei leader europei e arabi, firmando gli accordi di Sharm el-Sheikh.
Senza giri di parole, si teme che Netanyahu la cui premiership, già invisa all’opinione pubblica israeliana, é ora dopo l’accordo sull’orlo delle elezioni anticipate, una volta che gli ostaggi sono stati tutti rilasciati e i corpi consegnati, possa approfittare della minima alzata di scudi di Hamas per riprendere l’offensiva su Gaza. Col dichiarato proposito di sradicare il gruppo terroristico filo iraniano già piuttosto decimato, ma non del tutto annientato. Diviso al suo interno fra quanti vorrebbero riorganizzarsi ed irriducibili, ma rafforzato dal ritorno degli ergastolani e dei detenuti liberati da Israele, Hamas da parte sua ha già avviato una campagna di sanguinose vendette con esecuzioni sommarie nei confronti dei gruppi palestinesi che durante l’offensiva israeliana si sono sottratti alla sua egemonia.
Una faida intestina facilmente manovrabile e trasformabile nella negazione degli accordi di pace appena sottoscritti da Hamas. Un continuo alzare il tiro che é da sempre la strategia preferita da Netanyahu per non perdere il potere e anzi utilizzata per sfruttare la ferocia di Hamas come alibi per rafforzare il suo ruolo di premier. A accelerare l’eclissi politica di Netanyahu, fanno osservare gli analisti di strategie politiche, vi sarebbe la maggiore disponibilità dell’attuale opposizione parlamentare israeliana, guidata dal giornalista televisivo Yair Lapid, ex premier per cinque mesi nel 2022 e leader del partito di centro, ad accordi con i paesi arabi che possano includere un ampliamento della rappresentanza dell’autorità nazionale palestinese in modo di costituire con gradualità la formazione di un vero e proprio stato palestinese. Eventualità assolutamente da escludere con Netanyahu.
A nessuno é sfuggito infatti l’ammiccante e ripetuto riferimento a Yair Lapid da parte del presidente Trump durante il discorso alla Knesset. Storicamente non é la prima volta che un Premier che vince la guerra perde le elezioni e viene sostituito. Il caso più clamoroso é quello di Wiston Churchill che alle elezioni del 1945 venne clamorosamente sconfitto dal partito laburista di Clement Attlee, che ottenne una valanga di voti ed una schiacciante maggioranza parlamentare. E in Israele un cambio di governo risolleverebbe la popolarità di un Paese che, a torto o a ragione, l’intransigenza di Netanyahu ha totalmente isolato internazionalmente.