Skip to main content

La stanchezza per l’Ucraina e l’emotività per Gaza. I rischi della disinformazione secondo Antinori

Per l’Ucraina si è generata una certa stanchezza nell’audience e il prolungarsi delle ostilità la ha confinato a una dimensione più “da addetti ai lavori”. Al contrario, in Palestina, l’interpretazione prevalente è immediatamente umanitaria. Serve un’educazione più accurata, capace di collocare i conflitti in un contesto storico e geopolitico, per ridurre l’impatto distorsivo dei social. Colloquio con Arije Antinori, professore di criminologia alla Sapienza di Roma e Senior Leading Expert dell’Eu Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation

La guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente non sono soltanto crisi geopolitiche: sono anche, e soprattutto, guerre di percezione. Nello spazio digitale si giocano battaglie parallele, dove emozioni, disinformazione e narrazioni distorte modellano le opinioni pubbliche e alimentano nuove forme di radicalizzazione. Le piazze per Gaza degli ultimi giorni sono l’epifenomeno di qualcosa di molto più ampio e radicato. Formiche.net ne ha parlato con Arije Antinori, professore di criminologia alla Sapienza di Roma e Senior Leading Expert dell’Eu Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation, che da anni studia le dinamiche di estremismo online e le strategie di propaganda digitale.

Professore, quali sono le principali differenze nella percezione pubblica tra il conflitto in Ucraina e quello in corso a Gaza?

C’è una distinzione netta. Nel caso ucraino, dopo quasi tre anni di guerra, si è generata una certa stanchezza nell’audience. È un conflitto che, seppur geograficamente più vicino, è ormai emotivamente distante. Il prolungarsi delle ostilità e la militarizzazione estrema lo hanno confinato a una dimensione più “da addetti ai lavori”. Al contrario, in Palestina, l’interpretazione prevalente è immediatamente umanitaria. Anche perché vengono artatamente nascoste le terribili responsabilità di Hamas. Ma le immagini che arrivano da Gaza — crude, drammatiche — colpiscono nel profondo. Si percepisce un esercito che agisce in un contesto di distruzione, più che in una logica strategico-militare. Questo genera un impatto emotivo molto più forte e diretto sull’opinione pubblica globale.

In che modo la comunicazione digitale contribuisce a costruire queste percezioni divergenti?

Bisogna distinguere fra piattaforme mainstream e piattaforme di nicchia. Attraverso questi mezzi si coltivano identità e coscienze collettive. Si formano, in qualche modo, delle bolle narrative. Nel caso di Israele, l’Idf ha sviluppato un’efficace strategia di social media warfare rivolta principalmente a un’audience interna, per comunicare i rischi alla propria cittadinanza, per un uso esclusivamente interno. Tuttavia, non ha mai realmente costruito una strategia per un pubblico globale. Questo limite comunicativo alimenta la percezione di un conflitto asimmetrico, dove il controllo dell’informazione è quasi totale.

Lei parla spesso di “nuovi estremismi”. In che modo i conflitti stanno riattivando queste dinamiche?

Oggi assistiamo a una forma inedita di estremismo: non più rigidamente ideologico, ma antisistema e anti-governativo. Gaza, in particolare, sta diventando un catalizzatore per questi movimenti, che si fanno portatori — spesso strumentali — della causa palestinese. Il conflitto sta riattivando le coscienze, e questo di per sé è positivo. Ma bisogna distinguere tra partecipazione civile e derive violente: gli “spin off” estremisti sfruttano la legittima indignazione per alimentare le proprie agende antisistema.

È possibile immaginare un paragone con gli anni della strategia della tensione?

Durante la Guerra Fredda, la strategia della tensione si sviluppava su due matrici ideologiche contrapposte. Oggi, invece, viviamo in un sistema interdipendente. Gli impatti di un conflitto non restano più circoscritti a un territorio: si propagano in tempo reale, generando riverberi politici, economici e sociali ovunque. Questo non significa che le vecchie ideologie siano sparite: gli estremismi di sinistra e di destra sopravvivono, ma si innestano in un contesto frammentato, ibrido. La natura della minaccia è cambiata, non la sua intensità. La vera sfida è leggere insieme la dimensione online e quella offline, perché la tensione di sistema attraversa entrambe.

Come si può contrastare la disinformazione e prevenire queste derive radicali?

Gli antidoti sono tutti quei processi che riducono la distanza cognitiva tra i fatti e la loro percezione. Serve un’educazione più accurata, capace di collocare i conflitti in un contesto storico e geopolitico, per ridurre l’impatto distorsivo dei social. Bisogna evitare l’informazione “emotivizzata”, quella che parla alla pancia e non alla mente. E ricordarci che i giovani — spesso post-pandemici, compressi, in cerca di spazi di espressione — vivono questi conflitti come la prima vera occasione di partecipazione. Ma è anche il momento in cui sono più vulnerabili alla manipolazione. Il compito delle istituzioni, dei media e del mondo educativo è restituire loro strumenti critici, non slogan. Solo così potremo spezzare il ciclo della disinformazione e prevenire la radicalizzazione.


×

Iscriviti alla newsletter