Sarebbe un errore confondere la voce delle piazze per Gaza con quella della maggioranza. Come confondere le parole d’ordine di chi manifesta con la sensibilità dell’elettorato nel suo complesso, che è molto meno militante e nella gran parte dei casi in piazza non è mai andato in vita sua. Negli anni di Piombo le tensioni si sviluppavano su tempi lunghi e conflitti di lungo respiro, oggi viviamo un’iper-accelerazione mediatica. Colloquio con il fondatore di YouTrend, Lorenzo Pregliasco
Sarebbe troppo facile ripetere l’antico adagio che vuole le piazze piene e le urne vuote. Non c’è dubbio che le manifestazioni per Gaza abbiano riportato in primo piano la dimensione della mobilitazione popolare ma, parallelamente, anche il rischio di una nuova polarizzazione che ricorda, per alcuni aspetti, il clima degli anni di Piombo benché con dinamiche differenti dettate dal contesto e dalle modalità con le quali si protesta. Tanto in piazza quanto sui social. Una condizione complessiva che porta con sé un’accelerazione mediatica e una crescente distanza tra attivismo e politica istituzionale. La domanda è inevitabile: che significato hanno oggi queste piazze? E soprattutto, che rapporto hanno con la politica? Ne abbiamo parlato con chi, tra i primi, ha cercato non solo di porsi i quesiti ma anche di tentare di trovarne le risposte: Lorenzo Pregliasco, cofondatore dell’agenzia di sondaggi YouTrend e docente all’Università di Bologna.
Che cosa raccontano le manifestazioni di questi giorni sul conflitto in Medio Oriente?
Ci dicono che è tornata la piazza, ma in forme nuove. Queste mobilitazioni rientrano nel modello della “politica on demand”: non una battaglia ideologica, bensì un attivismo legato a una causa specifica. Lo abbiamo visto con il clima, con il femminismo, ora con Gaza. È un attivismo che rifiuta i partiti e non ha come punto di approdo la politica istituzionale.
Storicamente, però, la piazza italiana ha sempre dialogato con la politica. Oggi cosa è cambiato?
Una volta la manifestazione era il primo passo di un percorso che poi approdava a una mediazione politica. Spesso, i partiti erano protagonisti. Oggi no. Oggi piazza e social in un certo senso coincidono: il messaggio è la mobilitazione stessa. Non si immagina un seguito parlamentare o un atto istituzionale. Questo segna una rottura con le mobilitazioni del passato, una frattura con la politica classica particolarmente forte tra i più giovani.
C’è chi parla di un clima simile a quello degli anni di Piombo. È un paragone azzardato?
Il contesto è molto diverso. Negli anni di Piombo le tensioni si sviluppavano su tempi lunghi e conflitti di lungo respiro, oggi viviamo un’iper-accelerazione mediatica. I cicli dell’indignazione durano giorni o settimane, spinti dalle fiammate social. La polarizzazione resta, anzi si amplifica, ma è immediata e spesso anche performativa: più un conformismo da social network che una effettiva elaborazione politica.
Le piazze coincidono con il sentimento maggioritario nel Paese?
Bisogna stare attenti: parliamo di minoranze attive, visibili, rumorose, ma non dell’intero Paese. Certo, intercettano un sentimento diffuso di solidarietà verso Gaza e di condanna della condotta di Israele, ma non descrivono un’agenda politica condivisa. Sarebbe un errore confondere la voce delle piazze con la voce della maggioranza. Come confondere le parole d’ordine di chi manifesta con la sensibilità dell’elettorato nel suo complesso, che è molto meno militante e nella gran parte dei casi in piazza non è mai andato in vita sua.
Eppure l’opinione pubblica sembra molto più attenta a Gaza che, ad esempio, all’Ucraina. Perché questa sproporzione?
Perché Gaza diventa un terreno ideale su cui al messaggio per la pace si salda una visione critica verso l’Occidente, potremmo dire anticolonialista. Difendere l’Ucraina in un certo senso significa difendere l’Europa e l’Occidente, mentre sostenere la Palestina consente di mettere in evidenza le contraddizioni del nostro mondo. Una linea politica che motiva molti “pro Pal”.
Allora, possiamo dire che siamo davanti a una nuova forma di partecipazione politica?
Sì, ma con caratteristiche molto diverse dal passato. Nella politica on demand non ci sono più palinsesti comuni: ciascuno sceglie le proprie cause, indipendentemente dai partiti. Un meccanismo che incentiva la polarizzazione, perché semplifica il discorso pubblico in una logica binaria: buoni contro cattivi. Con tutto ciò che ne consegue.