Mentre il tempo e il crescente assedio dell’occidente giocano a sfavore, la situazione internazionale della Russia si fa sempre più precaria ed il Cremlino non riesce più a recuperare la perdita della credibilità negoziale che aveva in parte ritrovato dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca. L’analisi di Gianfranco D’Anna
Settimana di fuoco per Putin. “Caratterizzata da una serie di errori ognuno dei quali sostiene il precedente e si appoggia sul seguente” la definirebbe Ennio Flaiano con uno dei suoi fulminanti aforismi. Per il presidente russo le incognite negative dell’inverno e soprattutto dell’inizio del quarto anno di guerra stanno superando il punto di non ritorno. Corrono veloci e tragici i 120 giorni che mancano all’ anniversario dell’inizio della fallita invasione dell’Ucraina.
Cosa si inventerà la propaganda del Cremlino, molto più mendace di quella di Goebbels, per nascondere il disastroso bilancio in perdite umane e collasso economico di un conflitto senza sbocchi che vede l’armata di una superpotenza nucleare impattare e spesso arretrare di fronte alla strenua difesa dell’Ucraina?
Più che le mistificazioni del prossimo 22 febbraio, a Mosca al momento preoccupano i contraccolpi dell’ormai comprovata impossibilità di Putin di potere avviare la minima fase negoziale per risolvere diplomaticamente il conflitto. Prima artefice e ora ostaggio dell’oltranzismo nazionalista post sovietico, Putin si è bruciata, con la pantomima della telefonata a Trump alla vigilia del vertice di Zelensky alla Casa Bianca, anche l’ultima chance per guadagnare ancora tempo con un inutile vertice a Budapest.
Anche se scottato dalla plateale presa per i fondelli in mondovisione di Anchorage, Trump ha sventato con qualche giorno di ritardo il nuovo bluff del presidente russo e per salvare la faccia ha scatenato una duplice rappresaglia, immediatamente operativa sul piano economico e invisibile su quello militare. Con un semplice ordine esecutivo il tycoon ha messo in pratica fuori mercato le aziende petrolifere Rosneft e Lukoil, che producono ed esportano quasi la metà del petrolio russo e sono vitali per il finanziamento del bilancio del Cremlino. Le sanzioni di Trump sono infatti congegnate in modo da bloccare automaticamente alle raffinerie e alle banche che effettuano transazioni con Rosneft e Lukoil l’accesso ai mercati finanziari statunitensi e la possibilità di effettuare pagamenti in dollari.
Immediato l’impatto economico: le quattro principali compagnie petrolifere statali cinesi, PetroChina, Sinopec, CNOOC e Zhenhua Oil, hanno sospeso gli acquisti di petrolio russo, mentre la più grande raffineria indiana, Reliance Industries, ha annunciato che non rinnoverà il contratto per l’importazione di greggio alla Rosneft. Per evitare contraccolpi, su richiesta degli Usa, l’Arabia Saudita e il cartello dei Paesi produttori di petrolio dell’Opec, hanno già predisposto un massiccio aumento delle estrazioni in maniera da sopperire agli ordinativi cinesi e indiani.
Avvolta dal segreto, della military revenge trumpiana contro Putin si intuisce l’ampiezza dei contorni dalla convocazione alla Casa Bianca del segretario generale della Nato Mark Rutte, al quale Pentagono e agenzie di intelligence hanno illustrato i canali per far transitare attraverso l’Europa la ripresa di massicce forniture di armamenti all’Ucraina. Non soltanto sistemi difensivi Patriot, ma soprattutto missili a lunga gittata.
Non più comunque i Tomahawk, utilizzati come specchietti per le allodole e che in realtà per motivi di sicurezza nazionale necessitano dell’esclusiva assistenza di personale statunitense, ma i missili Joint Air-to-Surface Standoff con circa 950 chilometri di raggio d’azione, affiancati dagli Atacms, Storm, Shadow, Scalp in dotazione a Gran Bretagna, Germania, Francia, Olanda e paesi nordici e che dispongono di una gittata fra i 300 e i 500 chilometri. Quanto basta per colpire in profondità le infrastrutture militari, i centri comando, le raffinerie di petrolio e gli snodi ferroviari in territorio russo. Come é già avvenuto col missile britannico Storm Shadow che ha distrutto uno stabilimento russo a Bryansk che produceva esplosivi e carburante per razzi.
Per potenziare le difese aeree ucraine ai 20 moduli di batterie di missili Patriot dagli Stati Uniti si aggiungono gli Aster francesi e le batterie missilistiche inglesi, nonché oltre agli F16 i caccia bombardieri Mirage francesi ed i Gripen svedesi, a decollo verticale considerati i più adatti all’utilizzazione a ridosso delle prime linee ucraine perché in grado di entrare in azione da strade civili e campagne in modo da poter intervenire da postazioni disperse anziché da aeroporti. Una vera e propria offensiva d’attacco top secret, da far gestire a Kyiv e dietro le quinte ai paesi europei, con la supervisione per quanto riguarda i target in territorio russo dell’intelligence Usa e britannica. Una decisa reazione militare che, scrive il quotidiano britannico The Guardian “segna l’ultima oscillazione contro la Russia del pendolo dell’amministrazione Trump nei rapporti con Putin”.
Un pendolo definitivamente fermato in modalità guerra o pace dall’unanime mobilitazione a favore dell’Ucraina di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Olanda Polonia, ed altri 20 Paesi così detti volenterosi, riunitisi a Londra assieme al Segretario Generale della Nato Rutte. Per Mosca si prospetta un inverno difficile. L’azzardo della telefonata di Putin a Trump per proporgli un vertice sul nulla a Budapest si è rivelato un boomerang.
Il buco nero per l’economia mondiale rappresentato dal conflitto Russa-Ucraina sarà al centro dell’incontro di fine ottobre, con buone prospettive di accordi commerciali, fra Trump e il presidente cinese Xi Jin Ping, a Gyeongju in Corea del Sud al vertice dell’Asia-Pacific Economic Cooperation. “Sì, è uno degli argomenti che affronteremo”, ha confermato Trump, che facendo leva sulla mediazione di Pechino di fatto isola ulteriormente il Cremlino, che si ritrova accanto soltanto il dittatore nord coreano. Kim Jong Un ha promesso l’invio di altri soldati sul fronte ucraino per sostenere le truppe di Mosca, in aggiunta ai circa 10 mila già inviati lo scorso anno.
Senza neanche cogliere il sinistro risvolto, Kim ha annunciato l’invio del nuovo contingente di soldati all’inaugurazione del monumento alla memoria dei soldati nordcoreani morti nella regione russa di Kursk durante l’offensiva delle forze ucraine ed ha testualmente affermato che “seguendo una strada lastricata di sangue, abbiamo raggiunto un livello elevato nelle relazioni tra i nostri due Paesi”. Il sangue del popolo nord coreano, usato come carne da macello come hanno sempre fatto tutti i dittatori, a cominciare da Putin con le giovani generazioni russe, mandate al massacro in Ucraina.







