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Papa Leone a Beirut per rifare del Libano un messaggio. La riflessione di Cristiano

Giovanni Paolo II, durante una memorabile funzione religiosa celebrata a Piazza dei Martiri, definì il Libano “un messaggio”. Papa Leone nel suo primo viaggio visiterà Beirut, – piegata da una devastante crisi economica, dalla fuga di tanti e sotto la milizia di Hezbollah – città che potrà riconoscere in questa scelta un segnale di incoraggiamento, una potente iniezione di ottimismo e di speranza

Città del Vaticano, uffici della Congregazione della Dottrina della Fede. Qui il cardinale Roger Etchegaray assumeva ufficialmente la difesa del vescovo greco-cattolico Gregoire Haddad. Negli anni che precedettero lo scoppio della guerra civile libanese, monsignor Haddad, un entusiasta sostenitore del Concilio Vaticano II, aveva dato vita con l’imam sciita Musa Sadr al movimento della società, indicando con questo gesto per quei tempi ardito non solo la necessità del dialogo tra cristiani e musulmani, ma anche la necessità di un impegno ecclesiale, del laicato cattolico e di una loro particolare vicinanza agli sciiti libanesi che rimanevano l’anello debole e discriminato della società.

Musa Sadr, che tenne un celebre discorso in una chiesa dei cappuccini, fu poi sequestrato in Libia nel 1978 e da questo gravissimo vuoto -verificatosi non certo per caso – i khomeinisti trovarono il modo per cominciare a far emergere Hezbollah. Haddad aveva coinvolto sulla sua linea alcune delle migliori intelligenze del mondo politico cristiano, come ad esempio l’ambasciatore ed editore, l’ortodosso Ghassan Tueni. Vescovo minuto ma inarrestabile, già allora girava tutti i miseri villaggi del sud del Libano, in prevalenza sciiti, per portare medicine raccolte in Europa. E tutto questo a qualcuno non piaceva, lo ritenevano non conferme alla dottrina. Etchegaray lo difese, vincendo la causa, definendo Haddad “uno dei migliori interpreti del Concilio Vaticano II”.

È questo uno dei tanti volti del cristianesimo libanese che Beirut, la prima metropoli che Leone XIV ha deciso di visitare e dove si recherà dal 30 novembre al 2 dicembre, custodisce con un po’ di sbadatezza, perché da allora tanto, troppo è accaduto. Ma papa Leone visiterà una città che certo ricorda bene che Giovanni Paolo II, durante una memorabile funzione religiosa celebrata a Piazza dei Martiri, definì il Libano “un messaggio”. È difficile vedere quel messaggio per le strade di Beirut, piegata da una devastante crisi economica, dalla fuga di tanti, dal tentato urbicidio del 2020 per via dell’assurda esplosione del suo porto dove Hezbollah custodiva segretamente un quantitativo enorme di esplosivo e poi del 2024, la campagna militare israeliana che ha distrutto il versante sud della città e il Libano meridionale, bastioni della milizia di Hezbollah. Il confronto libanese quando il papa arriverà in città verterà ancora, come oggi, sul difficile disarmo di Hezbollah, unico partito politico ad avere ancora una milizia in armi con la quale per lunghi anni ha sequestrato la politica nazionale di difesa. È per se stesso, per tornare sovrano, che il Libano vuole questo disarmo; uno Stato non può coesistere con un esercito privato che risponde ad un altro Paese, l’Iran.

Ma Beirut non può riassumersi in Hezbollah, il suo messaggio oggi guarda al porto devastato: è lì il messaggio di Beirut, nella rinascita delle strutture dell’ultimo grande scalo del Levante. Grazie a quel porto, in faticosa via di ricostruzione, Beirut è diventata una metropoli araba, mediterranea, occidentalizzata. L’ha definita così uno dei suoi figli più illustri, assassinato da Hezbollah per le strade del più noto quartiere cristiano di Beirut, Samir Kassir. Questo messaggio, araba, mediterranea, occidentalizzata, è più forte e pertinente al futuro del modello Dubai, o Neom, che il piano di pace di Trump sembra prefigurare. Quella degli emiri è una modernità efficace ma tecnocratica, quella di Beirut è una modernità costruita nella storia, nella tensione polare con la vicinissima montagna, custode della tradizione. È anche per questo che Beirut è araba ma anche occidentalizzata grazie al suo porto, alla sua storia, alle sue lotte lotte sindacali, ai primi giornali arabi e cittadini che furono pubblicati nella città ormai portuale, rendendola mediterranea per tutte le sue comunità religiose. Senza dialogo Beirut cessa di essere storia, sfiorisce nel suo depresso presente. Ha le risorse per ripartire? Lo ha fatto tante volte e la visita del papa è certamente un segnale di incoraggiamento, una potente iniezione di ottimismo, di speranza.

La crisi economica e le distruzioni belliche non impediscono ai berutini di ricordare che negli anni Sessanta dell’Ottocento accorsero qui tanti di loro in fuga dalle guerre confessionali e tribali che dilaniavano la montagna: tutti fuggiaschi, tutti a Beirut. Non c’era un miracolo di amicizia, ma diffidenza, qualche scontro. Ma presto, quando la storia ne offrì l’opportunità, i notabili di tutte queste comunità scrissero insieme al Sultano una petizione, firmandola congiuntamente, per la valorizzazione della città, del suo rango nell’impero. Intanto i lavoratori portuali davano inizio ai primi scioperi. I giornali portavano idee, alcune socialisteggianti, dall’Europa, idee che giungevano in città grazie al porto.

La storia di monsignor Gregoire Haddad è parte di questa storia cittadina, come tante altre storie, comprese quelle che l’hanno avversata. Ma la sua volontà di offrire un faro a tutta la complessa brughiera che va da Beirut fino a Baghdad, in un intreccio terrificante di orrori, di totalitarismi autoprodotti e devastazioni, ci dice che forse il Novecento sta finalmente finendo anche a Beirut e questo sarebbe il primo messaggio che Beirut potrebbe mandare a quella parte di mondo, insieme a quello che è il suo porto: a vincere la sfida con il Novecento che lo ha devastato ma non distrutto sarebbe il porto, il suo sguardo sul Mediterraneo, quindi europeo, ma capace di attirare tutto l’entroterra fino a sé. Ripartirebbe così lo spirito libertario di Beirut, molto diverso da quello immerso nel paradigma tecnocratico di Dubai e questo sarebbe l’altro messaggio.

Per favorire i nuovi Gregoire Haddad che potrebbero certamente emergere deve però riemergere la forza oggi sotterranea della storia di Beirut. La coltre della miseria e della distruzione l’ha tramortita. Il viaggio di papa Leone potrebbe essere un energetico potente, indicatore di un rinnovato, laico, aperto impegno cristiano nella cultura araba, mediterranea, occidentalizzata di questa città-faro.


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