Skip to main content

Processo di Aqaba, il focus sull’Africa per contrastare il terrorismo

La riunione di Roma ne rilancia la dimensione globale tra Europa, Africa e Medio Oriente. A dieci anni dalla sua nascita, il Processo di Aqaba si conferma come rete di cooperazione discreta ma efficace nella lotta al terrorismo. Basato su fiducia e scambio operativo, unisce governi, intelligence e settore tecnologico

La riunione di Roma, co-presieduta ieri e oggi dalla presidente Giorgia Meloni e Re Abdullah II di Giordania, segna il decennale del Processo di Aqaba, ponendo al centro dell’agenda la sicurezza nel Sahel e in Africa Occidentale. Ma il forum ideato dal sovrano giordano è molto più di un appuntamento simbolico: è una rete informale, discreta ma influente, che lavora per costruire una risposta coordinata al terrorismo e all’estremismo violento.

Origini e obiettivi

Il Processo di Aqaba nasce nel 2015 per iniziativa diretta di Re Abdullah II, ex comandante delle forze speciali e molto sensibile alla dimensione securitaria. L’obiettivo è sempre stato quello di creare uno spazio di confronto pragmatico tra vertici militari, di sicurezza e dell’intelligence di diversi Paesi. L’idea di fondo è che il terrorismo non possa essere affrontato solo con il solo uso delle armi, ma attraverso una strategia olistico-preventiva, che agisca anche sulle radici ideologiche e sociali dell’estremismo.

Tre i pilastri dell’iniziativa: prevenzione, coordinamento operativo e superamento delle lacune nelle capacità dei singoli Stati. In un contesto segnato dal riemergere di minacce ibride in Europa e Medio Oriente, il formato Aqaba si distingue per la sua flessibilità e per la capacità di adattare i lavori a contesti regionali diversi, concentrandosi in questa occasione sul ritorno del jihadismo in Africa.

Perché il focus sull’Africa?

Negli ultimi dieci anni, il baricentro del terrorismo internazionale si è progressivamente spostato dal Medio Oriente e dal Nord Africa verso il cuore dell’Africa subsahariana. Il Sahel è oggi l’epicentro di una violenza in crescita esponenziale, che ha trasformato la regione in uno dei principali teatri del jihadismo globale. Cinque dei dieci Paesi più colpiti al mondo dagli attacchi terroristici si trovano in quest’area, dove la combinazione di debolezza istituzionale, tensioni etniche, degrado ambientale e colpi di Stato militari ha creato un vuoto di potere sfruttato da reti terroristiche e criminali.

Le statistiche mostrano una tendenza in costante peggioramento. Secondo le Nazioni Unite, nel 2023 l’Africa ha registrato in media otto attacchi terroristici e 44 vittime al giorno, più del doppio rispetto alla media del quinquennio precedente. Il Sahel da solo ha concentrato oltre la metà delle morti per terrorismo a livello globale, superando per la prima volta le 25.000 vittime complessive da conflitti armati, di cui quasi 5.000 attribuite ad azioni terroristiche.

Nel decennio, il bilancio totale delle vittime legate a gruppi islamisti militanti in Africa ha superato le 155.000 unità, con un incremento vertiginoso a partire dal 2019. Solo nel 2023, più di 7.000 civili sono stati uccisi nel Sahel da gruppi jihadisti, il 67% dei quali in Burkina Faso, oggi il secondo Paese più colpito al mondo. Altri focolai di violenza persistono in Mali, Niger e Ciad, dove il crollo delle alleanze internazionali e la frammentazione politica hanno accelerato l’espansione delle milizie.

La Nigeria — il cui presidente Bola Ahmed Tinubu è a Roma per il vertice — è un altro dei Paesi più colpiti, nonostante un calo del numero di attacchi: nel 2024 si sono comunque registrati 565 morti, concentrati negli Stati settentrionali. In Somalia, il gruppo jihadista al-Shabaab continua a rappresentare la principale minaccia, con oltre 350 vittime nel solo 2024, mentre nella Repubblica Democratica del Congo la violenza si è intensificata per l’attività dello Stato Islamico (noto anche come Isis), che ha trovato nuovi spazi di manovra nel contesto di instabilità.

L’espansione del gruppo creato nel 2014 dal fu Califfo Abu Bakr al Baghdadi e dei suoi affiliati africani è infatti uno degli elementi chiave di questa nuova geografia del terrore. Le sue ramificazioni – dalla Provincia dell’Africa Occidentale (Iswap) alla Provincia del Grande Sahara (Isgs) – operano oggi in 22 Paesi, sfruttando la porosità dei confini e la mancanza di controllo statale. Accanto a queste, si è consolidata l’organizzazione Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimeen (Jnim), nata in Mali nel 2017, responsabile di oltre mille morti nel 2024.

Inoltre, sebbene Boko Haram abbia perso terreno rispetto al passato, continua a rappresentare una minaccia significativa nel nord della Nigeria e in Camerun. Parallelamente, la presenza del gruppo russo Wagner (ora Afrika Corp), pur non essendo di natura terroristica, ha inciso sugli equilibri regionali: la compagnia russa ha approfittato del ritiro o della riduzione delle missioni occidentali, e ha rafforzato la propria influenza, spesso collaborando con regimi militari insediatisi dopo i colpi di Stato — frutto dello scontento popolare anti-occidentale, prodotto anche da attività di disinformazione legate alla penetrazione russa, cinese o iraniana. L’Afrika Corp ha inasprito le posizioni jihadiste e spesso creato connessioni con gruppi e clan per preservare i propri ingressi.

Il risultato complessivo è una regionalizzazione della violenza jihadista, che oggi connette Sahel, Lago Ciad, Somalia e Africa Centrale in un unico arco di instabilità che si muove anche lungo l’asse mediorientale. È in questo scenario che si inserisce il Processo di Aqaba: la piattaforma pensa a promuovere coordinamento, scambio d’informazioni e strategie preventive tra Stati e attori regionali, dove per “regionali” si intende un’estensione geostrategica che avvolge il Mediterraneo-Allargato (o come ha definito più volte la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il “Mediterraneo Globale”).

Un forum itinerante

Ogni riunione del Processo di Aqaba è stata finora dedicata a un’area specifica colpita da terrorismo o radicalismo, con la partecipazione di rappresentanti locali, partner internazionali e organizzazioni multilaterali. La scelta del Paese ospitante varia a seconda del tema e dell’urgenza strategica. Roma è evidentemente individuato come attore ponte all’interno di quella ampia regione geostrategica, anche per l’iniziativa operativa collegata al Piano Mattei.

Negli ultimi anni, il forum ha toccato diverse capitali, consolidando una rete di cooperazione globale. A settembre 2024, ad Amman, i lavori si erano concentrati sulla regolamentazione delle tecnologie dei droni e sul rischio del loro uso improprio da parte di gruppi estremisti. Tre mesi dopo, a Aqaba, la discussione ha riguardato la Siria, con l’obiettivo di sostenere la stabilità delle istituzioni statali e preparare il terreno a una futura transizione politica.

Nell’aprile 2025, la tappa di Sofia, co-presieduta da Giordania e Bulgaria, ha affrontato i rischi transfrontalieri nei Balcani, dal terrorismo alla disinformazione. Infine, la riunione di Roma dell’ottobre 2025 e concentra appunto l’attenzione sulla crisi di sicurezza in Africa Occidentale, oggi epicentro della violenza jihadista e dell’instabilità regionale. Particolarmente forte nell’area il nesso crimine-terrorismo, che contribuisce – insieme ad altre cause, come la povertà o la malnutrizione – ad alimentare il traffico di esseri umani, di droga e di armi e la migrazione forzata.

Ampiezza e metodo

A differenza di molti consessi formali, il Processo di Aqaba si caratterizza per la sua natura informale e per la composizione ampia dei partecipanti: non solo Capi di Stato e ministri, ma anche esperti militari, rappresentanti di organizzazioni regionali e globali — tra cui Unione Africana, Unione Europea, Nato e Nazioni Unite. In alcune edizioni, hanno preso parte anche aziende tecnologiche internazionali come Microsoft, Meta e Google, coinvolte nei tavoli dedicati al contrasto della radicalizzazione online e dell’odio digitale.

Questo approccio multilivello consente di affrontare il terrorismo come fenomeno complesso, che si alimenta di ideologie, povertà, vulnerabilità tecnologiche e fragilità istituzionali. In particolare, le sessioni dedicate alla propaganda e all’uso distorto delle piattaforme digitali hanno reso il forum un modello di cooperazione tra settore pubblico e privato.

Il ruolo dell’Italia nel “Mediterraneo Globale”

Secondo fonti italiane, la scelta di Roma come sede per l’edizione del decennale rappresenta un riconoscimento del ruolo crescente dell’Italia nel campo della sicurezza mediterranea e africana.

“Al centro della riunione di Roma — spiegano le fonti — ci saranno anche le strategie messe in campo a livello internazionale per affrontare le cause profonde dell’instabilità”. In questo quadro rientra anche l’approccio del Piano Mattei, la strategia nazionale italiana per l’Africa, fondata sulla creazione di partenariati egualitari per lo sviluppo delle nazioni africane.

Ospitare il vertice consente a Roma di consolidare la propria postura nel Mediterraneo Allargato e nel Sahel, rafforzando al tempo stesso la collaborazione con Amman in materia di sicurezza e contrasto al radicalismo. Il dialogo tra Meloni e Re Abdullah II, due leader con una visione comune della sicurezza come bene collettivo, conferma la centralità del Processo di Aqaba come piattaforma di diplomazia olistica, informale ma concreta.


×

Iscriviti alla newsletter