La distrazione della Cgil appare non solo fuori tempo, ma fuori luogo: proprio mentre il mondo cerca una strada nuova per la pace, un sindacato storico si rifugia nel rituale del conflitto, indebolendo grandemente la propria missione di rappresentanza sociale. Il commento di Raffaele Bonanni
Qualsiasi persona di buon senso, di fronte all’emergenza umanitaria di Gaza che fino a pochi giorni fa pareva senza sbocco, non poteva che sentirsi rassicurata dalla proposta di Trump, sostenuta dai Paesi arabi, di interrompere gli scontri e disinnescare il rischio di nuovi massacri contro la popolazione di quel lembo tormentato del Medio Oriente, stretto nella morsa di opposti estremismi. Le cancellerie occidentali, con un impegno diplomatico non trascurabile, hanno rilanciato la storica soluzione dei due popoli, due Stati: l’unica prospettiva credibile per garantire convivenza e stabilità nel futuro.
Un’ipotesi che, pur tra mille difficoltà, appare più concreta del passato, proprio perché sostenuta da un’inedita convergenza tra i Paesi arabi (con la sola eccezione dell’Iran). Tutti, infatti, condividono la convinzione che il processo possa avere esito soltanto disarmando Hamas e affidando agli stessi palestinesi, insieme alle potenze arabe, la responsabilità di trasformare un dramma storico in un percorso di pacificazione, sorretto da forze internazionali pronte a farsi garanti.
Chi conosce le infinite fratture dell’area sa bene quanto sia raro, quasi miracoloso, assistere a convergenze così solide. Eppure, proprio nel momento in cui si intravede una breccia di speranza, stupisce e delude il silenzio di una voce che avrebbe potuto contribuire: quella della Cgil, sindacato glorioso che ha segnato la storia democratica italiana in collaborazione con la Cisl ed alla Uil. Invece di valorizzare questa svolta, di leggere con attenzione i segnali di una possibile normalizzazione, l’organizzazione ha preferito imboccare ancora una volta la strada dello sciopero generale, sfidando norme che ne regolano l’esercizio ed esponendo i lavoratori a sanzioni certe.
Un gesto che non rafforza la causa sindacale del sindacato. Di quello unitario in quanto plurale e capace di servire lavoratori e lavoro italiano nella Repubblica, di essere tale per sincera vocazione al pluralismo interno, ma la indebolisce, consegnandola all’estremismo sterile del “spacchiamo tutto”. A chi giova questo attivismo? Non ai cittadini, costretti a subire disservizi odiosi, soprattutto nei fine settimana. Non ai lavoratori, che avrebbero bisogno di contratti migliori e non di bandiere ideologiche.
Non al tessuto democratico e riformista, che in Parlamento – pur con differenze di accenti – ha manifestato la volontà comune di dare sostegno al processo di pace in atto. Sullo sfondo resta il peso di alcuni dei grandi attori internazionali che guardano con sospetto a questo possibile scenario: gli ayatollah iraniani, che vedono minata la loro influenza; i russi, costretti a tornare sotto i riflettori per l’aggressione all’Ucraina; i cinesi, pronti ad approfittare della confusione occidentale per accelerare le proprie mosse espansionistiche.
Ecco perché la distrazione della Cgil appare non solo fuori tempo, ma fuori luogo: proprio mentre il mondo cerca una strada nuova per la pace, un sindacato storico si rifugia nel rituale del conflitto, indebolendo grandemente la propria missione di rappresentanza sociale.