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Tensioni nel Ladakh, incontri a Washington, scontro nel cricket. Continua il confronto India-Pakistan

Le proteste in Ladakh mettono alla prova la tenuta interna dell’India, scossa dalle attività di destabilizzazione provocate dai suoi rivali. E mentre Washington riallaccia con il Pakistan, irritando New Delhi, non stupisce che il cricket rifletta la rivalità indo-pakistana

Le proteste esplose in questi giorni in Ladakh riaccendono i riflettori sulle fragilità interne dell’India, proprio mentre gli Stati Uniti scelgono di riallacciare legami stretti con Islamabad, con effetti diretti sugli equilibri regionali e sulle scelte strategiche del primo ministro Narendra Modi. Sullo sfondo perfino il cricket, specchio della rivalità indo-pakistana, mostra quanto sia radicata la politicizzazione del rapporto tra i due Paesi.

Un fronte interno che brucia

La scorsa settimana, nella regione frontaliera del Ladakh, le manifestazioni per il ripristino dello status statale hanno generato scontri violenti con le forze dell’ordine, causando quattro vittime, tra cui un veterano dell’esercito. Le autorità hanno imposto il coprifuoco e arrestato il leader del movimento, Sonam Wangchuk, figura popolare, nota per i suoi progetti educativi e ambientali, ma anche controverso agitatore popolare con una predicazione divisiva, provocatoria. Le accuse di legami con finanziamenti stranieri, inclusi quelli pakistani, sono state respinte dai suoi sostenitori, ma i sospetti indiani sono forti. E l’arresto rischia di radicalizzare ulteriormente il malcontento, sebbene si leghi anche a un contesto più ampio.

New Delhi, che nel 2019 aveva riclassificato Ladakh come territorio sotto amministrazione diretta, si trova ora a dover bilanciare imperativi di sicurezza e sensibilità locali, dove l’interferenza esterna si incastra, sovrappone, amplifica. Una sfida complessa, soprattutto considerando che proprio nel Ladakh si sono registrati gli scontri di frontiera più cruenti con la Cina negli ultimi anni. Il rafforzamento infrastrutturale lungo la linea di controllo può essere percepito come necessario a livello strategico, ma rischia di alimentare la contestazione sul piano interno. A maggior ragione se alimentate ad arte.

Il ritorno del “Pakistan option” a Washington

Sul versante internazionale, un altro fronte preoccupa New Delhi: la riapertura di credito di Washington a Islamabad. In pochi mesi, il presidente Donald Trump ha accolto due volte a Washington il capo di stato maggiore pakistano Asim Munir, oltre al primo ministro Shehbaz Sharif. Segnali diplomatici accompagnati da mosse concrete: riduzione dei dazi commerciali per il Pakistan, designazione del Balochistan Liberation Army (nemica di Islamabad) come organizzazione terroristica, rilancio del dialogo antiterrorismo e intese nel settore delle risorse minerarie e degli idrocarburi.

La logica statunitense è tattica: garantirsi accesso a catene di approvvigionamento critiche — in particolare quelle minerarie in cui la Cina domina — e ribilanciare la presenza cinese nella regione che dal Pakistan si estende all’Asia Centrale. Da aggiungere che tutto questo permette anche di mantenere margini di pressione sull’India, con cui l’amministrazione Trump sta faticosamente cercando un equilibrio. Ma la scelta americana rischia di riattivare le dinamiche tradizionali di dipendenza e squilibrio in Pakistan, rafforzando ulteriormente l’apparato militare a scapito di una fragile governance civile.

Per l’India, il messaggio è chiaro: nonostante una cooperazione rafforzata negli ultimi dieci anni, Washington mantiene l’opzione pakistana come strumento di pressione. Le tariffe del 50% imposte in agosto sui prodotti indiani hanno acuito la percezione di un’asimmetria, soprattutto a fronte di un trattamento commerciale più favorevole a Islamabad. L’effetto è un raffreddamento della fiducia reciproca: i progetti di co-sviluppo tecnologico e difensivo con gli Stati Uniti appaiono rallentati, mentre l’India intensifica i segnali di autonomia strategica.

L’arena simbolica del cricket

A rendere evidente quanto la rivalità indo-pakistana permei ogni aspetto della vita pubblica, e sia attualmente una preoccupazione prioritaria (anche perché New Delhi vede Islamabad in asse con Pechino) c’è il caso recente dell’Asia Cup di cricket a Dubai. Dopo la vittoria sull’eterno rivale, la squadra indiana ha rifiutato di ricevere il trofeo dalle mani del presidente del torneo, che è anche ministro dell’Interno pakistano. La successiva scomparsa del trofeo dalla cerimonia ha alimentato accuse di scorrettezza e nuove polemiche. Lo stesso Modi ha sfruttato l’episodio in chiave politica, paragonando la vittoria sportiva all’“Operazione Sindoor”, la recente offensiva antiterrorismo in Pakistan — legata alle accuse di New Delhi sui collegamenti di gruppi armati operanti nel territorio indiano anche come vettori di destabilizzazione pakistani.

Il cricket diventa così allegoria della competizione geopolitica: la mancanza di fair play sportivo rispecchia la difficoltà di stabilire relazioni minime di fiducia reciproca. È un dettaglio simbolico, ma utile a comprendere come i rapporti indo-pakistani siano intrisi di diffidenza strutturale che va oltre i tavoli negoziali.


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