Senza luoghi veri di informazione e formazione, sostituiti dai talk show che premiano la rissa, la politica è diventata estranea proprio a chi dovrebbe ereditarla. Non è un caso che la fascia più assente alle elezioni sia quella tra i 18 e i 30 anni. Il commento di Raffaele Bonanni
È un riflesso condizionato della politica italiana: arrivano i risultati regionali e, prima ancora che si depositi la polvere delle urne, la maggioranza relativa annuncia la “grande discussione” sulla riforma elettorale.
Questa volta il tempismo è un fatto politico, non un tic. Le regionali del 23-24 novembre 2025 hanno consegnato due messaggi brutali: nessuna valanga, ma un’astensione mai così alta, con affluenza media intorno al 43-44%.
Solo un ingenuo può credere che l’allarme nasca da un improvviso amor di democrazia. La questione è più prosaica: il sistema misto con collegi uninominali punisce chi rischia di trovarsi davanti un’opposizione unita alle politiche del 2027, e infatti già si parla di correggerlo. Ma se la riforma sarà l’ennesimo abito cucito addosso ai rapporti di forza del momento, non toccherà ciò che sta franando sotto i nostri piedi.
Da trent’anni la legge elettorale non incentiva il cittadino a scegliere chi lo rappresenta nel territorio e nella sua cultura politica; incentiva i partiti a sequestrare quella scelta. Sbarramenti percentuali, adempimenti burocratici che in Europa trovi solo qui, raccolte firme oceaniche, candidature multiple in più collegi, candidati “paracadutati” trans-regionali decisi dalle nomenclature nazionali: tutto concorre a indebolire la rappresentanza territoriale su cui poggia la democrazia parlamentare. Gran parte dell’astensionismo nasce da qui, dalla sensazione che il voto sia un gesto simbolico in un teatro scritto altrove.
Eppure c’è un livello ancora più corrosivo. La Costituzione immagina i partiti come strumenti di partecipazione e selezione delle classi dirigenti; nella pratica molti si sono richiusi a riccio, diventando circuiti chiusi in cui le dirigenze non si rinnovano per confronto ma per cooptazione.
Senza luoghi veri di informazione e formazione, sostituiti dai talk show che premiano la rissa, la politica è diventata estranea proprio a chi dovrebbe ereditarla. Non è un caso che la fascia più assente sia quella tra i 18 e i 30 anni.
Qui l’ipocrisia diventa intollerabile: si accusa la gioventù di rifiutare la politica, quando è la politica ad aver rifiutato i giovani per difendere lo status quo. I social, eterodiretti da piattaforme globali interessate più alla confusione che alla cittadinanza, riempiono il vuoto lasciato dai “buoni maestri” che i partiti non organizzano più. La passione per la giustizia finisce così preda di slogan e manipolazioni.
Se davvero si vuole una riforma, il punto non è scegliere tra proporzionale, maggioritario o premi di coalizione. È restituire agli elettori la possibilità di contare: collegi credibili, candidati radicati, selezione trasparente, barriere d’accesso che evitino la frammentazione ma non l’oligarchia.
E parallelamente una verifica seria dell’articolo 49: democrazia interna, partecipazione, ricambio. Altrimenti la riforma sarà solo un’altra manovra di autoconservazione, e l’Italia continuerà a scivolare verso una democrazia senza popolo.
Chi governa si ricordi: la governabilità non è un trucco di legge, ma un patto vivo; senza cittadini dentro, ogni vittoria è cartone. E lo sanno tutti.







