Un attentato vicino al Red Fort di Delhi riporta la minaccia terroristica nel cuore dell’India. Le indagini rivelano una rete di radicali “colletti bianchi” collegata a gruppi jihadisti internazionali, segno di un terrorismo sempre più sofisticato e interstatale. Ma per Nuova Delhi ci sono anche questioni legate alle attività ibride, all’interno dei propri confini, organizzate dai rivali strategici
L’esplosione che lunedì sera ha scosso Delhi, nei pressi del Red Fort, ha segnato il ritorno della minaccia terroristica nel cuore politico dell’India. Otto persone sono morte e venti sono rimaste ferite in quello che il primo ministro Narendra Modi ha definito “un atto di cospirazione” durante un discorso pronunciato a Thimphu, in Bhutan, dove si trovava in visita ufficiale.
“Le nostre agenzie andranno fino in fondo: i responsabili non saranno risparmiati”, ha promesso. È il primo attentato nella capitale dal 2011, e ha riportato un senso di vulnerabilità in una città abituata a un alto livello di sicurezza e soprattutto si proietta a essere un hub per la crescita economica globale del futuro.
Le autorità di Delhi hanno aperto un’inchiesta sotto l’Unlawful Activities (Prevention) Act, la principale legge antiterrorismo del Paese, e hanno disposto immediatamente la chiusura di stazioni metro e mercati nell’area del Red Fort, simbolo nazionale da cui Modi si rivolge ogni anno alla nazione nel giorno dell’indipendenza. L’allerta massima è stata estesa anche a Mumbai e Calcutta, mentre gli Stati dell’Uttar Pradesh e dell’Haryana hanno rafforzato la sorveglianza ai confini.
L’attacco riporta in primo piano la questione del terrorismo jihadista in India, in un momento in cui Nuova Delhi si presenta come potenza globale e garante di stabilità regionale. Dopo anni in cui la minaccia era concentrata nel Jammu e Kashmir, l’esplosione nella capitale indica un’evoluzione verso un terrorismo urbano e simbolico, capace di colpire al centro del potere e della memoria collettiva.
Parallelamente, un’operazione congiunta delle polizie del Jammu e Kashmir e dell’Haryana ha svelato un quadro ancora più inquietante. In diverse perquisizioni sono stati recuperati oltre 2.900 chilogrammi di sospetto nitrato di ammonio, materiale sufficiente per centinaia di ordigni esplosivi improvvisati, insieme a un arsenale di armi, telecomandi e timer. Tra gli arrestati figurano diversi medici e professionisti, un fenomeno che le autorità definiscono “terrorismo dei colletti bianchi”.
Nel giro di poche ore, un impiegato del college medico di Faridabad è stato arrestato dopo il ritrovamento di esplosivi in una casa da lui affittata. In un’auto appartenente a un collega è stato rinvenuto un fucile d’assalto Krinkov, mentre un terzo medico era già stato fermato per propaganda a favore dell’organizzazione Jaish-e-Mohammed. Arrestato anche l’imam di una moschea di Faridabad in contatto con i sospetti.
In Gujarat, la polizia ha fermato un trentacinquenne laureato (in medicina) in Cina mentre stava preparando ricina, una tossina letale estratta dai semi di ricino. L’uomo aveva compiuto sopralluoghi in diversi luoghi affollati — dal mercato di Azadpur Mandi a Delhi alla sede del Rashtriya Swayamsevak Sangh a Lucknow — ed era in contatto con Abu Khadim, una nota figura dell’IS-Khorasan, la fazione baghdadista che si muove tra Afghanistan e Pakistan.
Questi episodi delineano una rete interstatale e sofisticata, dove figure istruite e professionali assumono un ruolo operativo, connesso a movimenti jihadisti transnazionali. La radicalizzazione di medici, docenti e tecnici suggerisce un salto di qualità organizzativo rispetto al terrorismo tradizionale del subcontinente.
Le autorità indiane interpretano questa escalation come parte di una strategia di guerra ibrida che combina terrorismo, infiltrazioni e disinformazione, spesso con epicentro in Pakistan. L’attacco segue di pochi mesi quello contro turisti indù in Jammu e Kashmir, in cui Nuova Delhi aveva accusato gruppi sostenuti da Islamabad, e che aveva provocato il peggior scontro militare tra i due Paesi da decenni.
Il governo Modi, già impegnato a consolidare la postura dell’India come potenza responsabile nell’Indo-Pacifico, potrebbe ora sfruttare l’episodio per giustificare una stretta sulla sicurezza interna e un’intensificazione della cooperazione con partner come Stati Uniti, Francia e Israele in materia di intelligence e contrasto al terrorismo.
L’attentato al Red Fort non rappresenta dunque solo un ritorno alla violenza, ma una nuova fase del terrorismo indiano: più diffuso, tecnico, silenzioso e infiltrato nei livelli alti della società. In un contesto di tensione permanente tra India, Pakistan e Afghanistan, il confine tra sicurezza interna e geopolitica regionale si fa sempre più labile — e l’India, oggi più che mai, si trova a dover difendere la stabilità dentro i propri confini anche per proteggere la sua immagine globale.
















