La riforma del procurement del Pentagono apre una nuova fase nei rapporti industriali e strategici tra Stati Uniti ed Europa. Trump chiede che gli europei comprino americano, mentre a Bruxelles si guarda più all’industria domestica per guidare il riarmo. Le due posizioni non sono inconciliabili, ma perché si possa trovare la quadra sarà necessario un approccio pragmatico, tanto nel vecchio continente quanto nel nuovo
La riforma del procurement del Pentagono annunciata da Pete Hegseth la scorsa settimana viaggia su due binari paralleli. Se da un lato il nuovo Warfighting acquisition system punta ad accelerare l’assegnazione delle commesse e le consegne per le Forze armate americane, dall’altro ha anche il chiaro obiettivo di capitalizzare sull’aumento della domanda di sistemi d’arma da parte degli Alleati, in particolare quelli europei. Se infatti gli armamenti statunitensi sono generalmente riconosciuti come i più avanzati, l’ingolfamento della catena di consegne degli ultimi anni (basti pensare ai ritardi sulle consegne degli F-35) rappresenta un malus non indifferente per l’appetibilità di questi sistemi in un momento in cui gli europei sentono l’urgenza di fare in fretta. A quasi quattro anni dall’inizio della guerra d’Ucraina e dinanzi ai nuovi impegni di spesa assunti in sede Nato, gli Stati europei si trovano non solo a dover rifornire i propri stock per rimpiazzare gli equipaggiamenti inviati a Kyiv, ma anche a ricostruire degli strumenti militari reduci da decenni di sottoinvestimento. Dunque, l’Europa è chiamata a riarmarsi, ma con le armi di chi? E, forse ancora più importante, prodotte dove?
La prospettiva di Washington
Donald Trump, dopo aver premuto per settare l’asticella delle spese militari al 5% del Pil, si aspetta che gli Alleati si rivolgano all’industria statunitense per ricostruire le loro capacità presenti e future. Gli armamenti statunitensi, sostiene il tycoon, sono i migliori al mondo e, anche come forma di fedeltà transatlantica, gli Stati europei dovrebbero rivolgersi agli States per rinfoltire i propri arsenali. Nell’accordo quadro sottoscritto tra Ue e Usa lo scorso agosto (quello sui dazi, per intendersi), si parla dell’intenzione di aumentare “in modo sostanziale gli acquisti di attrezzature militari dagli Stati Uniti, con il sostegno e la collaborazione del governo statunitense”. Lo stesso Trump, in quella occasione, parlò di un valore complessivo di investimenti (termine volutamente vago) di circa 600 miliardi. Tuttavia, da allora, poco si è mosso su quel fronte e, anzi, gli Stati europei hanno tutti (chi più, chi meno) riportato attenzione e fondi sulle proprie industrie domestiche.
La riforma del procurement del Pentagono comprende diverse novità per i cosiddetti Foreign military sales (Fms), vale a dire l’export di armamenti americani verso l’estero. Storicamente, gli Usa sono sempre stati molto gelosi dei loro sistemi d’arma, pur permettendone l’acquisto a una ristretta platea di Alleati nel corso degli anni. In alcuni casi – come per il programma Joint strike fighter/F-35 – sono addirittura arrivati a co-svilupparli, pur mantenendo un rigidissimo controllo su operabilità ed esportazioni. Alcuni sistemi sono stati prodotti in versioni specificamente pensate per l’export, mentre altri (vedasi l’F-22 Raptor) non hanno mai ottenuto l’approvazione da parte del Congresso per essere venduti all’estero. Questo per garantire il mantenimento della superiorità strategica statunitense, anche rispetto ai propri Alleati. Ora, questo capitolo sembra andare incontro se non a una chiusura, quantomeno a una revisione sensibile. Innanzitutto, nel nuovo schema, la Defense security cooperation agency (Dsca) – che gestisce le vendite militari all’estero – e la Defense technology security administration (Dtsa) – che si occupa delle licenze di export – passeranno sotto la supervisione diretta dell’ufficio Acquisition and Sustainment, creando di fatto un unico soggetto incaricato di gestire il capitolo acquisizioni interne e vendite estere. Inoltre, da ora i nuovi sistemi verranno progettati in una versione unica per le Forze armate Usa e per i partner. Da ultimo, l’accelerazione nelle consegne sarà imprescindibile per sostenere la richiesta di maggiori acquisti da parte degli Alleati. Nelle parole di Hegseth, “Quando promettiamo di fornire capacità critiche ai nostri partner, dobbiamo consegnarle in tempo, ogni volta”.
Le ragioni di Bruxelles
Dal canto suo, la Commissione europea – tramite i suoi programmi e incentivi – preme per una preferenza europea negli investimenti e negli acquisti dei sistemi d’arma per sostenere la reindustrializzazione e la competitività del continente. Le ragioni sono abbastanza ovvie. Indipendentemente dalla fine o dal prosieguo del conflitto ucraino, il mondo sta entrando in una nuova era di competizione geopolitica e, in questo quadro, l’Europa si è scoperta molto più debole di quanto non pensasse fino a poco tempo fa. Come ha più volte sottolineato Mario Draghi, l’illusione di possedere influenza geopolitica sulla sola scorta del peso economico è stata stracciata dal ritorno della retorica di potenza e, specialmente davanti alla minaccia russa, il continente deve ricostituire non solo le sue scorte, ma anche la sua base industriale della Difesa per gli anni a venire. Non si tratta solo di Forze armate, ne va anche della competitività economica del continente. Basti pensare all’industria europea dell’automotive e alle centinaia di migliaia di posti di lavoro che da essa dipendono. La corsa con la Cina si può dire ormai persa e si moltiplicano le opinioni di chi ritiene che l’unico modo per tutelare quelle aziende e quei posti di lavoro sia optare per la riconversione alla produzione militare. Capitolo che, con non poco coraggio nei confronti dell’opinione pubblica, la Germania ha già aperto. Di conseguenza – e al netto della proverbiale coperta finanziaria, che non basta coprire sia testa che piedi – è naturale che le cancellerie europee vedano la produzione interna come una priorità. Soprattutto nell’eventualità di un conflitto sul continente, l’Europa necessita di impianti produttivi e catene logistiche in loco, piuttosto che dall’altra parte dell’Atlantico. Inoltre, la riforma dottrinale e operativa di cui le Forze armate europee hanno un disperato bisogno viaggia sullo stesso binario della riduzione della frammentazione industriale e dell’armonizzazione degli equipaggiamenti. Per non parlare dei dubbi riguardo la possibilità di spegnere a distanza gli armamenti americani anche una volta acquistati. A tal proposito, si ricorderanno le polemiche sorte – e ancora non completamente sopite – riguardo il presunto kill-switch degli F-35.
Una via mediana esiste
Numeri alla mano, né Washington né Bruxelles hanno le carte in regola per ottenere quanto dicono di volere. Non come vorrebbero, almeno. Per quanto riguarda gli Usa, la riforma del procurement – per il momento – resta solo sulla carta e non è detto che agli annunci seguirà rapidamente un’accelerazione della produzione e delle consegne. Quand’anche così fosse, l’industria statunitense non avrebbe comunque le capacità per soddisfare la domanda interna e quella di 31 Alleati in contemporanea, specialmente se pensiamo a sistemi altamente sofisticati come i caccia da combattimento e i main battle tank. Dal nostro lato dell’oceano, invece, l’Europa ha un bisogno urgente di armamenti – in particolare sistemi di difesa aerea – e non può permettersi di aspettare i riti comunitari o i valzer complessi dell’industria. Si tratta principalmente di prodotti che gli Usa possono offrire off-the-shelf, quindi in tempi ridotti. Sul breve termine, laddove non esistano già alternative europee già in produzione, l’applicazione stringente del principio buy European rischierebbe di rivelarsi un buco nell’acqua o, peggio ancora, di fallire nel provvedere al continente gli equipaggiamenti di cui necessita oggi, e non tra dieci-quindici anni. In questo contesto, l’Europa non può far altro che riconoscere il proprio ritardo e correre ai ripari, optando per l’acquisto di piattaforme note, scalabili e pronte all’uso. Tuttavia, diversamente da come desidera Trump, gli Stati europei non possono neanche appaltare integralmente il loro riarmo (e i proventi di esso) agli Usa e alla loro industrie. Per contare nel mondo di domani e per sviluppare una deterrenza convenzionale credibile, l’Europa necessita di un’industria capace di reggersi sulle sue gambe, di fare massa critica e di produrre in Europa i sistemi e gli equipaggiamenti che dovranno difenderla.
Dunque, deve essere guerra tra buy American e buy European? Non necessariamente. Sul piano degli acquisti, il discrimine tra sistemi immediatamente disponibili e quelli futuribili da sviluppare in ambito europeo può offrire una prima quadra utile a soddisfare entrambe le parti: ciò che serve urgentemente lo si compra dagli Usa, quello che bisogna progettare oggi e produrre domani lo si fa in Europa. E qui entra in gioco un ulteriore punto su cui una convergenza tra le due sponde dell’Atlantico è possibile: la produzione congiunta. Diverse aziende americane lo hanno già capito e si stanno muovendo di conseguenza, pianificando investimenti e la costruzione di nuovi impianti sul territorio europeo, in collaborazione con le aziende europee – vedasi in questo senso l’esempio Anduril-Rheinmetall. Ciò non aumenterà i posti di lavoro negli Stati Uniti – come vorrebbe Trump –, ma permetterà di mantenere saldo (e magari di irrobustire) la cooperazione industriale transatlantica. Tale discorso vale anche all’inverso, dal momento che il tessuto produttivo americano vede nelle imprese europee un patrimonio di expertise e know-how tecnico prezioso, testimoniato dalla florida presenza di aziende del comparto Aerospace&Defence in territorio statunitense (molte delle quali italiane). Quello del procurement – e, per estensione, del riarmo – è un tema cruciale per il futuro del rapporto transatlantico, ma nessuno avrà da guadagnare da un braccio di ferro mutualmente esclusivo tra buy American e buy European. Piuttosto, un’integrazione pragmatica tra le ragioni e le necessità di entrambe le sponde dell’Atlantico – che non esclude anche il ritorno allo sviluppo congiunto dei sistemi – potrebbe rappresentare la chiave di volta della riqualificazione dei rapporti strategici tra Europa e Stati Uniti. Proprio quella invocata dall’amministrazione Trump.















