Non bastavano le banche che hanno voltato le spalle al Cremlino al primo cenno di sanzione o il petrolio comprato ma a prezzo di saldo. Ora il Dragone, che pur si vanta della sua alleanza con l’ex Urss, inonda di silicio il mercato russo. E facendo il prezzo che vuole
Qualcuno ha detto, in passato, che gli affari sono affari. O come dicono gli inglesi, business is business. E pazienza se ci sono di mezzo alleanze più o meno sante o, semplicemente, strombazzate. Alla Cina di Xi Jinping interessa poco o nulla quando si parla di soldi e minerali. Sono mesi che questo giornale racconta il vero volto dell’amicizia tra Russia e Dragone, dove dietro ai tappeti rossi, alle strette di mano e le scalette degli aerei, c’è una specie di piccolo gioco al massacro. Pechino compra meno petrolio russo di quanto potrebbe, con la sola attenuante delle sanzioni. E tentenna sulla realizzazione del nuovo gasdotto Power of Siberia 2, di cui a Mosca hanno bisogno come il pane, per portare le forniture di metano verso la Cina a 50 miliardi di metri cubi annui.
Va detto che l’economia cinese non se la passa granché bene, tra acciacchi conclamati e il fallimento di certe politiche di governo. Dunque, perché legarsi mani e piedi alla Russia, che proprio di buona salute non gode? Lo dicono i numeri. Si prenda, per esempio, l’industria del carbone, per storia e tradizione spina dorsale, sta letteralmente collassando. Il 74% delle aziende del comparto opera in perdita e il 23% ha completamente interrotto la produzione. Di più, la perdita totale del settore ha raggiunto i 3,32 miliardi di dollari e, secondo le stime, potrebbe arrivare a 4,42 miliardi di dollari entro la fine dell’anno.
Certo, la Cina potrebbe aiutare la Russia. Invece no. Altro esempio di industria strategica per l’ex Urss, il silicio. Il quale sta attraversando la sua crisi più profonda degli ultimi anni: la produzione russa nel 2025 è diminuita di circa un terzo e la ragione principale è l’aggressiva politica dei prezzi della Cina e la cronica sovrapproduzione, che consente a Pechino di vendere silicio a prezzi di dumping e di fatto estromette i produttori russi dal proprio mercato interno. Che cosa vuol dire? Semplice, il Dragone (il principale produttore mondiale di silicio, con una produzione annua di circa 6,6 milioni di tonnellate) vende il minerale alla Russia a prezzi o di mercato o, addirittura, superiori. Insomma, senza nessun prezzo di favore.
Ma c’è di più. Non solo Pechino non fa sconti a Mosca, ma invade con il suo stesso silicio il mercato russo. Dunque, se da una parte il Cremlino paga salato il minerale importato dalla Russia, dall’altra la stessa Cina sta creando i presupposti per una dipendenza che molto presto potrebbe diventare una sorta di cappio al collo. D’altronde, in Russia, il silicio metallico viene utilizzato principalmente dalla metallurgia ferrosa e non ferrosa per la produzione di leghe. Sui mercati globali, tuttavia, questo materiale ha applicazioni molto più ampie, soprattutto nell’elettronica, nella produzione di semiconduttori e nella produzione di pannelli solari. Eppure la Russia non produce quasi nessun componente ad alta purezza per questi settori: non dispone, cioè, delle tecnologie necessarie e importa la maggior parte di tali prodotti dalla Cina.
Questo squilibrio strategico non fa che aggravare la crisi. I produttori cinesi possono coprire l’intero fabbisogno annuale di silicio metallico della Russia in meno di tre settimane di attività. Di conseguenza, l’industria russa si trova ad affrontare una minaccia sistemica: il mercato interno è inondato di silicio cinese e al prezzo che decide il Dragone. Una situazione che blocca di fatto la Russia nella dipendenza dalla Cina, sia per quanto riguarda le materie prime che per quanto riguarda la tecnologia della filiera produttiva. Non un buon programma.
















