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Asset russi, eurobond o niente. Le tre strade dell’Europa per l’Ucraina

Giovedì il Consiglio europeo chiamato a stabilire da che parte vuole stare l’Europa nell’ambito del sostegno economico a Kyiv. La Germania vuole lo smobilizzo delle riserve per farne da garanzia al maxi finanziamento da 140 miliardi, Belgio ed Ungheria continuano a fare muro. L’Italia invece gioca la carta del compromesso. E attenzione al jolly degli eurobond

La linea è tracciata, ora serve solo mettere ogni tassello al suo posto. Un solo errore e potrebbe saltare l’intero banco e l’Ucraina vedere sfumare la possibilità di incassare un prestito dall’Europa di 140 miliardi. Soldi senza i quali Kyiv rimarrebbe ben presto a secco di munizioni e uomini, visto che chi va al fronte a combattere dopo essere stato arruolato, va comunque pagato. Quella degli asset russi è una partita che definire delicata è poco: semmai è un gioco di equilibri, su cui agiscono diverse forze.

Il punto di arrivo è il Consiglio europeo del 18 dicembre, l’ultimo dell’anno e, soprattutto, l’ultimo utile per trovare l’intesa definitiva sulla monetizzazione delle riserve della Bank of Russia detenute in Belgio, affinché vengano messe a garanzia del prestito che l’Europa, o parte di essa, vuole concedere all’Ucraina. Qualora l’unione fallisse ancora il colpo, si aprirebbero due strade: pace o affondo militare russo. Forse mortale per Kyiv.

Le forze in campo

Giorgia Meloni a Berlino, sede dei negoziati che sembrano aver riacceso una flebile speranza di pace, ha dettato una sostanziale linea: va bene utilizzare gli asset russi, a patto che garantiscano finanziamenti destinati alla ricostruzione del Paese invaso e non alla fornitura di armi. Una specie di compromesso, che nelle ultime ore ha preso le sembianze di una risoluzione che Meloni porterà domani in Parlamento, dove è attesa per le consuete comunicazioni che precedono il Consiglio europeo. Poi c’è chi vuole di più.

Come la Germania di Friedrich Merz, che vuole a tutti costi mettere in liquidazione le riserve russe per farne delle garanzie sul prestito. Suo, non a caso, il pressing decisivo che ha portato l’Ue a confiscare (finora i beni di Mosca erano solo congelati) le riserve (grazie all’art. 122 del Trattato Ue che permette di prendere misure di emergenza economica a maggioranza qualificata), aprendo la strada a uno smobilizzo delle stesse su larga scala. Il terzo partito, quello del no, è guidato da Belgio e Ungheria.

Il primo per ragioni tecniche: essendo il Paese dove si concentra il grosso delle risorse, è anche quello più esposto a probabili contenziosi legali (la Russia ha già chiesto un risarcimento di 18mila miliardi di rubli 200 miliardi di euro alla finanziaria belga Euroclear, che tiene in freezer circa 185 miliardi di asset russi). Di qui, l’alert del Belgio, pronto a sua volta a far ricorso. Nel caso ungherese, invece, valgono più ragioni di palazzo, vale a dire il feeling mai del tutto nascosto tra Budapest e Mosca.

Il jolly del debito

Finora, insomma, il via libera è solo tecnico. Manca la decisione politica sul da farsi. Domanda, ma se fallisse l’opzione asset? Qui è stato l’Alto rappresentate europeo per gli Esteri Kaja Kallas a mettere sul tavolo il jolly.  “Ne abbiamo esplorate diverse, di opzioni, per tre anni, per trovare finanziamenti per l’Ucraina e permetterle di difendersi, il prestito di riparazione è il più praticabile, ma una seconda alternativa sono gli eurobond, opzione più economica per tutti, ma servirebbe l’unanimità e non siamo tutti d’accordo”.

“La proposta sui prestiti (garantiti dalle riserve, ndr) può essere approvata, con luce verde da almeno 15 Stati membri e dal 65% della popolazione totale, non pesa sui nostri contribuenti e lancia un messaggio chiaro: se si causano danni a un altro Paese, si deve pagare”, ha aggiunto Kallas. Immediata la sponda tedesca, per bocca di Merz. “Dobbiamo risolverla adesso, in modo che tutti gli Stati Ue partecipino, il rischio sia distribuito. Se non ci riusciremo, la capacità d’azione Ue sarà danneggiata per anni, avremo dimostrato che in un’ora decisiva della storia non sappiamo stare insieme”. Ancora 48 ore.


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