La decisione a notte fonda di finanziare l’Ucraina per due anni ricorrendo al mercato dei capitali, sancisce il fallimento della linea tedesca e della stessa Ursula von der Leyen. E premia, semmai, quella italiana del compromesso. Ma anche l’ex presidente dalla Bce, profeta e architetto del debito condiviso
Vincitori e vinti. E forse adesso l’Europa sarà un po’ più unita di prima, almeno dal punto di vista finanziario. C’è qualcosa di vagamente storico nella lunga notte del Consiglio europeo, dalla quale è uscito un accordo politico per sbloccare un prestito da 90 miliardi per l’Ucraina. Soldi, con i quali coprire la spesa statale di Kyiv per i prossimi due anni, sia militare, sia civile. E se la Russia, a cannoni azzittiti, accetterà di pagare i danni al Paese invaso, l’Ucraina potrà a sua volta rimborsare l’Unione europea. Qualora tuttavia questo non accadesse, gli asset russi fungeranno da paracadute per l’Europa, in veste di garanzia di ultima istanza sui finanziamenti concessi.
La cronaca è nota. Dopo ore di discussioni a Bruxelles, i capi di Stato e di governo dell’Unione europea hanno deciso di aiutare l’Ucraina nella sua guerra contro la Russia, raccogliendo denaro sui mercati finanziari anziché usando gli attivi russi congelati al momento dello scoppio del conflitto. Al momento della cena, raccontano i presenti, è cominciato ad emergere un dato: il binario degli asset russi non avrebbe portato a niente. Il premier belga Bart De Wever non aveva dato segni di cedimento. Le perplessità di Paesi come Italia, Bulgaria, Malta e Repubblica Ceca restavano intatte. Viktor Orban e Robert Fico, nel frattempo, non smettevano di lavorare ai fianchi per far saltare la soluzione che avrebbe scatenato l’ita di Mosca. A quel punto il pressing di Friedrich Merz e Ursula von der Leyen aveva già smesso di dare segni di vitalità.
La decisione, insomma, è giunta in mezzo alla notte, e rappresenta una svolta rispetto ai piani prevalenti finora. Essenzialmente per un motivo: Bruxelles non userà i 200 miliardi di riserve russe confiscate a Mosca per garantire i 90 miliardi da girare a Kyiv. Ma andrà direttamente sul mercato, emettendo titoli di debito comunitari e raccogliendo il denaro da chi deciderà di sottoscrivere le obbligazioni. Ovvero, gli eurobond. Una scelta che, alla fine, ha messo d’accordo un po’ tutti. E qui si arriva facile facile a due conclusioni, che si riallacciano all’incipit.
Primo, la linea tedesca, che voleva l’esproprio tout court delle riserve russe (Berlino, dalla notte dei tempi, detesta mischiare il proprio debito con quello di altri Paesi, specialmente di area mediterranea, come l’Italia o la Grecia), è franata, insieme a quella della stessa von der Leyen, che fin dalla prima ora era pronta al colpo di mano sugli asset russi. Ha vinto, semmai, la soluzione italiana. Giorgia Meloni lo aveva detto alla Camera e al Senato, in occasione delle tradizionali comunicazioni della vigilia: Mosca deve e dovrà pagare, ma senza golpe sui beni del Cremlino. E in effetti sembra essere andata proprio così. Perché se la Russia non rifonderà l’Ucraina, allora l’Europa potrà davvero allungare le mani sulle riserve.
Attenzione, i vincitori sono due. Perché sul carro, c’è anche Mario Draghi, il grande sponsor del debito comune. L’ex presidente della Banca centrale europea lo ha sempre detto: non esiste Ue senza debito condiviso. Una dottrina che sembra essere tornata improvvisamente di moda, con gli eurobond che, avendola spuntata sulla messa in liquidazione degli asset russi, tornano protagonisti a quattro anni dal Recovery plan post-pandemia, finanziato proprio grazie ai titoli comunitari. Per la Germania un boccone indigesto ma necessario. Per l’Europa una vittoria. Da oggi, forse, il debito comune sarà un po’ meno tabù.







