La nuova strategia di sicurezza Usa rilancia una Dottrina Monroe del XXI secolo fondata su industria, tecnologia ed energia più che sulla forza militare. La competizione globale si gioca ormai su produzione, filiere e dominio delle tecnologie critiche
La nuova National Security Strategy 2025 segna un punto di rottura nella postura internazionale degli Stati Uniti. Non tanto per ciò che dice sui conflitti in corso, quanto per ciò che indica come architettura portante della potenza americana nel prossimo decennio. Washington non intende più fondare la propria leadership sulla proiezione militare permanente, ma su un sistema più profondo e strutturale: produzione, tecnologia, controllo delle risorse strategiche, sicurezza delle catene del valore. La potenza, nella visione americana, non si misura più solo in portaerei, ma in fabbriche, algoritmi, semiconduttori ed energia.
Il messaggio è netto. L’epoca della globalizzazione senza freni, fondata sulla delocalizzazione e sulla dipendenza reciproca incontrollata, viene considerata un rischio strategico. La reindustrializzazione non è più politica economica, ma politica di sicurezza nazionale. L’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico e i sistemi autonomi diventano i nuovi domini della competizione sistemica, al pari dello spazio o del cyberspazio. L’energia torna a essere uno strumento di potenza e non solo una variabile di mercato. E la stabilità internazionale non deve più essere garantita attraverso l’intervento diretto, ma mediante la leva economica, tecnologica e finanziaria.
Questa nuova dottrina si riflette in una mappa di priorità regionali che ridefinisce anche il rapporto degli Stati Uniti con gli alleati. Nelle Americhe, Washington riscopre una versione aggiornata della Dottrina Monroe, di cui la Casa Bianca ha celebrato nei giorni scorsi l’anniversario: sicurezza delle frontiere, contenimento degli avversari esterni, protezione delle filiere industriali continentali.
In Asia, l’obiettivo resta il confronto strategico con la Cina, ma il baricentro si sposta sempre più sulla competizione economica e tecnologica, mentre Taiwan continua a rappresentare il principale punto di frizione in termini di deterrenza militare.
L’Europa viene chiamata a un salto di responsabilità che va oltre la difesa tradizionale. Il messaggio implicito della strategia americana è che la sicurezza del continente non può più poggiare in modo strutturale sull’ombrello statunitense. Servono riarmo industriale, apertura selettiva dei mercati, investimenti massicci in tecnologia e infrastrutture critiche. In gioco non c’è solo la capacità militare, ma la tenuta complessiva del modello europeo in una fase di rallentamento strutturale.
Nel Medio Oriente, il cambio di passo è altrettanto evidente. Le “guerre infinite” lasciano spazio a una logica di accordi, partnership energetiche e cooperazione tecnologica. La stabilità non viene più cercata attraverso la presenza militare permanente, ma attraverso l’integrazione economica e i nuovi equilibri regionali. In Africa, infine, il paradigma cambia in modo forse ancora più radicale: meno aiuti, più investimenti. Al centro non ci sono solo la sicurezza e il contrasto all’instabilità, ma l’accesso a minerali critici, energia e nuove filiere produttive indispensabili alla transizione tecnologica occidentale.
Dentro questo quadro si colloca la vera chiave della strategia americana: la competizione globale non sarà vinta sul terreno ideologico, ma su quello delle capacità concrete. Costruire, scalare, proteggere le catene di approvvigionamento, dominare le tecnologie critiche. È una visione che lega in modo stretto politica industriale, sicurezza nazionale e politica estera, cancellando le tradizionali distinzioni tra economia e geopolitica.
Il punto di fondo è che la potenza, nel XXI secolo, non si misura più solo nella capacità di intervenire, ma nella capacità di produrre e innovare in modo autonomo. Gli Stati Uniti stanno costruendo una strategia di lungo periodo che punta a ridisegnare le regole del commercio, dell’industria e della tecnologia globale, assumendo che l’interdipendenza non sia di per sé un fattore di stabilità, ma anche una vulnerabilità.
Per il resto del mondo, Europa in primis, questa trasformazione rappresenta una sfida diretta. Non si tratta solo di adattarsi a un’America più selettiva negli impegni militari, ma a un’America molto più assertiva nella difesa dei propri interessi industriali e tecnologici. Il rischio è quello di trovarsi compressi tra blocchi sempre più organizzati per la competizione, senza una propria autonoma capacità strategica.
Stiamo entrando in una fase in cui potenza nazionale significa combinare capacità produttiva, dominio tecnologico e controllo delle risorse critiche. Chi riuscirà a tenere insieme questi tre fattori definirà le gerarchie del nuovo ordine globale. Gli Stati Uniti, con questa strategia, hanno chiarito di voler essere ancora loro a dettarne le regole.
















