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Da Meloni a Schlein. Bilanci e prospettive dei leader italiani secondo D’Anna

“L’incontro di domani con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, é segno del progresso nei negoziati tra Usa e Ucraina” ha affermato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky nel convulso fine anno di trattative che non dirada tuttavia le incognite sul ruolo dei leader internazionali e dell’incidenza della politica italiana. L’analisi di Gianfranco D’Anna

Ultimi colpi di coda di un anno senza pace, che ripone le residue speranze di far cessare il massacro della guerra in Ucraina nella videoconferenza fra il presidente americano Donald Trump, Volodymyr Zelensky e i principali leader europei. Una video call, alla quale interverrà la premier Giorgia Meloni, che anticipa il faccia a faccia di domenica sera a Palm Beach, in Florida, fra Trump e Zelensky.

“La pace non è mai così vicina”, ripetono tutti, tranne Vladimir Putin, che continua imperterrito a bombardare l’Ucraina e a mandare al macello intere generazioni di giovani soldati russi. La cometa dei presepi illumina l’epilogo di un anno da start and go, con molte proiezioni al 2026 e una forte interdipendenza internazionale nei bilanci e negli sbilanci della politica italiana.

Il ritorno alla Casa Bianca del presidente Donald Trump ha determinato una profonda svolta in tutti i contesti internazionali. Dal riposizionamento degli Stati Uniti rispetto alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente al marasma dei dazi; dal braccio di ferro con la Cina ai tentativi di imbrigliare Putin; dalle mire neocolonialiste verso la Groenlandia all’imposizione della tregua armata a Gaza; dagli schizofrenici rapporti con l’Europa e la Nato all’assedio militare del Venezuela, fino ai sempre più inconfessabili coinvolgimenti nello scandalo Epstein. Il quotidiano tsunami trumpiano ha stravolto gli equilibri economici e i rapporti strategici sedimentati dalla conclusione del secondo conflitto mondiale all’epilogo della Guerra fredda.

Un marasma che non risparmia gli stessi Stati Uniti e che si riverbera nel rapporto con l’Unione europea. Una criticità in parte attenuata dalla capacità della premier Giorgia Meloni di interloquire con il presidente americano e di riuscire, almeno in parte, a domare le enormi contraddizioni del tycoon, ma che non ha evitato all’Italia i contraccolpi dei dazi né la necessità di un’impennata delle spese militari per la Nato e la difesa europea.

La singolarità tutta italiana del quadro politico nazionale è data dalla convivenza, all’interno di maggioranza, governo e opposizione, di partiti con politiche internazionali contrapposte: la Lega filoputiniana e Fratelli d’Italia e Forza Italia apertamente schierati con l’Ucraina e la Nato. Oppure, nello schieramento progressista, la coabitazione fra i filopalestinesi e i giustificazionisti di Hamas dell’estrema sinistra e la netta posizione euroatlantica e antiterroristica del Partito democratico. Bilanci e prospettive della politica nazionale si riflettono essenzialmente sugli stress test di leader sulla rampa di lancio o in bilico all’interno dei propri partiti.

Con in primo piano la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che è riuscita a cavalcare con indiscusso successo tanto il panorama politico italiano quanto gli scenari internazionali. Considerata da Trump l’interlocutrice più affidabile in Europa, protagonista di numerosi vertici alla Casa Bianca, la premier ha fatto approvare dal Parlamento riforme che caratterizzano e sostanziano l’azione del governo: quelle sulla giustizia e sull’autonomia differenziata.

Oltre alle altre riforme in cantiere da parte della maggioranza – dal premierato alla legge elettorale – la ratifica della storica riforma costituzionale che prevede la separazione delle carriere dei magistrati e l’istituzione di due Consigli superiori per giudici e pubblici ministeri è demandata all’esito del referendum popolare che si terrà fra marzo e aprile prossimi.

Così come al 2026 è prevista l’emanazione dei decreti per stabilire i Livelli essenziali delle prestazioni, che avvieranno la piena attuazione dell’autonomia differenziata. Dotata di una naturale leadership, Giorgia Meloni si prepara a incassare nel prossimo anno il cospicuo dividendo politico accumulato in questi dodici mesi, durante i quali è riuscita anche a bypassare e recuperare l’impatto negativo dei molti disastri provocati da ministri pasticcioni o, peggio, inadeguati.

Una capacità di saltare gli ostacoli derivante dall’abilità dialettica e mediatica, con la quale si appresta a dividere ulteriormente le opposizioni e a calamitare le frange di parlamentari insofferenti e in fibrillazione all’interno di Forza Italia e della Lega.

Matteo Salvini chiude il 2025 con la definitiva assoluzione dalle pesanti accuse per aver negato nel 2019 lo sbarco di 147 migranti imbarcati sulla nave Open Arms. Un’assoluzione che allevia un anno di prevalenti insuccessi della Lega nelle elezioni regionali, con l’esclusione di quelle del Veneto. Un’emorragia che allarma via Bellerio, dove la segreteria del ministro delle Infrastrutture, giunta al tredicesimo anno, è insidiata da Luca Zaia e Massimiliano Fedriga e che lo sovraespone rispetto all’egemonia di Fratelli d’Italia.

Un’egemonia nei confronti della quale Salvini, come avvenuto nel corso della recente approvazione della legge di bilancio e del decreto per l’Ucraina, minaccia sempre più spesso l’uscita dal governo, senza precisare tuttavia con quale seguito all’interno dei gruppi parlamentari leghisti.

Antonio Tajani si prepara ad affrontare un congresso nazionale di Forza Italia che, su esplicito invito di Marina e Pier Silvio Berlusconi, è chiamato a rinnovare i vertici del partito. Pur confidando nelle proprie capacità diplomatiche per un recupero nei rapporti con gli eredi del Cavaliere fondatore e ancora deus ex machina del partito, nonché nella possibilità che le svolte internazionali possano concorrere a rinviare l’assise congressuale, il vicepremier e ministro degli Esteri tenta comunque di vanificare il tentativo di “pensionarlo” muovendo le schiere di iscritti capitanate da Maurizio Gasparri e Paolo Barelli.

Iscritti mobilitati anche dai due leader emergenti che contendono la segreteria a Tajani: il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto e il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. Puntando tutto sul successo della riforma della giustizia, promossa da Forza Italia e cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, l’attuale segretario fa affidamento, nel caso di un’eventuale diaspora, sull’asilo politico fra le fila di Fratelli d’Italia. Una prospettiva che non pregiudicherebbe il saldo parlamentare del centrodestra, ma non garantirebbe altrettante candidature alle prossime politiche.

Elly Schlein vanta un oroscopo del 2026 che prevede fortuna, ma in politica più che l’astrologia contano esclusivamente i consensi. Per la segretaria del Pd occorreranno molti consensi all’interno del partito e del cosiddetto campo largo per riuscire a contendere Palazzo Chigi a Giorgia Meloni. I successi nelle elezioni delle regioni più grandi, come Puglia, Campania e Toscana, non hanno risolto le contraddizioni dell’alleanza con i Cinque Stelle, né sciolto il nodo della premiership alla quale ambisce Giuseppe Conte.

Senza i voti, pur residui, dei Cinque Stelle, le chance di prevalere sul centrodestra appaiono vane. L’inconciliabilità delle ambizioni potrebbe favorire la candidatura – al momento latente ma onnipresente nel dibattito interno del Nazareno – della sindaca di Genova Silvia Salis, considerata l’astro nascente del fronte progressista. Meno consistente, perché associata a una politica fiscale impopolare, l’autocandidatura dell’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Ruffini.

Giuseppe Conte, dopo aver superato l’edipica metamorfosi dell’affrancamento da Beppe Grillo e dai “vaffa” fondativi, ha riorganizzato il movimento a propria immagine e somiglianza, posizionandolo su una trincea di opposizione frontale e puntando al miraggio della candidatura unitaria del campo largo come premier. Un miraggio che non sembra supportato dai voti, sempre più in evaporazione, e che rende il braccio di ferro con il Pd un ultimatum masochista: o mi candidate a premier o sarete sconfitti. Con il rischio, alle prossime politiche, di non superare la soglia di sbarramento.

Alleanza Verdi Sinistra: l’accoppiata formata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni dimostra che una diarchia politica può funzionare solo quando procede lealmente nella stessa direzione. Le ultime sette elezioni regionali hanno evidenziato che Avs, ormai radicata nei territori e stabilmente oltre il 3,5 per cento, rappresenta un punto di riferimento per il centrosinistra, tanto da prospettare il sorpasso dei Cinque Stelle.

Carlo Calenda e Matteo Renzi: impossibile scinderli. Invece che simul stabunt vel simul cadent, potrebbero ritrovarsi alleati paralleli a sostegno del fronte progressista o della maggioranza di un eventuale esecutivo di unità nazionale. Caratteri egocentrici, i due dioscuri della politica italiana sono stati e restano, insieme a Giorgia Meloni, protagonisti delle poche vere innovazioni politiche dell’ultimo decennio.


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