A ottant’anni esatti dall’insediamento del governo guidato da Alcide De Gasperi, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino ripercorre la visione dello statista che ricostruì l’Italia, fondando la Dc e gettando le basi per gli anni più prosperi che conobbe in nostro Paese. Solido ancoraggio alla visione europea, legami con gli Usa e difesa comune. Un monito per il presente
Ottant’anni dopo l’insediamento del primo governo guidato da Alcide De Gasperi, l’Italia torna a interrogarsi sulle proprie fondamenta repubblicane. Lo fa in un tempo diverso, incerto, attraversato da crisi internazionali e da un’Europa che cerca ancora una piena identità politica. È in questa ricorrenza che Formiche.net ha interpellato Calogero Mannino, storico esponente della Democrazia cristiana, più volte ministro, tra i protagonisti di quella stagione politica che affondava le radici proprio nell’eredità degasperiana. Con lo sguardo acuto di chi ha attraversato mezzo secolo di storia repubblicana, Mannino restituisce il senso profondo dell’opera del fondatore della Dc e traccia un parallelo — tutt’altro che scontato — con l’Italia di oggi.
Mannino, partiamo da una fotografia: qual era l’Italia che De Gasperi trovò davanti a sé quando assunse la guida del Paese ottant’anni fa?
L’Italia era un Paese distrutto. Materialmente, moralmente, politicamente. Era militarmente occupato dagli eserciti del mondo occidentale. La Resistenza vi partecipò, ma a determinare l’esito reale della guerra furono gli Americani e gli Inglesi a Milano e a Roma. Politicamente, uscivamo da una dittatura ventennale: non c’era libertà, non c’era democrazia. Chi avversava il fascismo era fuori dal Paese o, nella migliore delle ipotesi, ridotto al silenzio.
De Gasperi stesso fu vittima diretta del regime.
Sì, fu processato per un reato inesistente, il cosiddetto “tentativo di espatrio”. Finì in galera, ne sarebbe uscito chissà quando se non fosse intervenuto il vescovo di Trento, suo amico, a intercedere per lui. Stiamo parlando di uno dei cofondatori del Partito Popolare, dell’uomo che raccolse il testimone di Sturzo quando quest’ultimo fu costretto all’esilio.
Che tipo di responsabilità grava sulle spalle di De Gasperi nel momento in cui assume la guida del governo?
Una responsabilità immensa. Due governi avevano solo accompagnato la crisi del fascismo e della monarchia. De Gasperi si trova davanti un vuoto politico: i leader dell’epoca non avevano la maggioranza né nel Paese né in Parlamento. È lui a prendere in mano la situazione.
Nasce così la Democrazia Cristiana.
La Dc, per la verità, nasce da un lavoro preparatorio durato anni durante il fascismo, portato avanti anche grazie a settori della Chiesa. Ma anche grazie all’apporto dei popolari accanto a De Gasperi e a figure come Emilio Colombo, ai giovani cattolici fra i quali Andreotti e Moro, alla guida spirituale di monsignor Montini. È un partito che si fonda sulla dottrina sociale della Chiesa, ma che ha un respiro europeo, popolare e democratico. De Gasperi ne è l’architetto.
Molti dimenticano che il primo governo De Gasperi fu un governo di unità nazionale, con comunisti e socialisti al suo interno.
È vero. Togliatti era ministro della Giustizia, Nenni rappresentava il Partito Socialista. De Gasperi lavora alla rifondazione dello Stato nazionale: l’unità del Paese, il trattato di pace del 1946 — una fatica immensa —, la delicata questione dei confini con la Francia, la difesa del Trentino, la tenuta della Sicilia. È un lavoro titanico. E poi la Costituzione, che molti definiscono la più bella del mondo: una Carta saldamente ancorata alle migliori tradizioni dell’Occidente, articolata sul principio fondamentale della rappresentanza come criterio di liberà e democrazia.
Oltre alla ricostruzione politica, c’era anche quella economica. Quale fu la sua più grande intuizione?
L’Italia andava rimessa letteralmente in piedi. E tra i problemi più drammatici c’era quello dell’approvvigionamento energetico. De Gasperi nomina Enrico Mattei liquidatore dell’Agip, e da quella scelta nascerà l’Eni. È lì che si gettano le fondamenta della nostra autonomia energetica.
Un capitolo spesso trascurato è la visione europeista di De Gasperi. Specie sulla Difesa.
Lui fu l’intuitore dell’esercito europeo. Un progetto straordinario che venne osteggiato dai francesi di De Gaulle nel 1954, per ragioni di grandeur nazionale. Questo passo indietro dei francesi, costò caro anche in termini di politiche energetiche perché, caduta la CED, nonostante la fondazione dell’Euratom, fece venire meno un quadro di politiche comuni che avrebbero reso l’Europa più forte. Se quella Comunità Europea di Difesa avesse proseguito il suo percorso, molti problemi di oggi non esisterebbero. Il progetto fu avversato anche da inglesi e americani, perché l’Europa unita era (ed è) un soggetto forte. Ma nonostante tutto, De Gasperi legò l’Italia alla solidarietà atlantica e a quella europea. Questa è la sua più grande eredità.
Arriviamo all’oggi. Qual è, secondo lei, la lezione degasperiana per il governo Meloni?
È giusto — anzi necessario — rinsaldare il rapporto con gli Stati Uniti. Ma il nostro orizzonte strategico, culturale e politico deve restare l’Europa. È l’Europa la nostra casa, la nostra storia, il nostro futuro. Questo De Gasperi l’aveva capito prima di tutti. E non dobbiamo dimenticarlo.
















